Sabato 27 Aprile 2024 - Anno XXII

Venezia, la mia città

Una famosa scrittrice ripercorre le vie d’acqua e di terra della sua città, rivivendo gli stupori e le emozioni dell’infanzia

Venezia Il Caffè Florian
Il Caffè Florian

Mi è accaduto l’anno scorso, sul finire d’un pomeriggio di agosto. Ero a San Marco, seduta all’antico caffé Florian, ascoltando la musica, bevendo un bicchiere di prosecco.
Nella Venezia più conosciuta, più oleografica, più logorata e più consumata, ho sentito frusciare uno stormo di piccioni che s’alzava in volo, ho smesso di leggere il classico per l’infanzia che m’ero comperata poco prima (per i più curiosi: Kim di Kipling) e ho seguito il volo degli uccelli che puntavano verso le cupole della basilica, verso i quattro cavalli che Enrico Dandolo sottrasse all’ippodromo di Costantinopoli ottocento anni fa, verso quella miracolosa mescolanza di oriente e occidente che è San Marco. E ho scoperto, ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, di amare perdutamente quel panorama, quel cielo, quella piazza, quella città. La mia città.

Folla a Venezia? Da sempre 
Venezia-Basilica-Santa-Maria-della-Salute
Basilica Santa Maria della Salute

Chi si lamenta che Venezia è invasa da “mandrie in pantaloncini” – la definizione è di Iosif Brodskij e potete trovarla a pagina 25 del suo Fondamenta degli incurabili edito da Adelphi – ha una qualche ragione. Ma al dunque non poi troppe: Venezia, città d’acqua e di trine marmoree è da sempre abituata alle folle dei “foresti”.

A piazza San Marco, cuore pulsante della Serenissima, veniva anticamente organizzata la fiera della Sensa, si faceva mercato, si piazzavano bancarelle, si vendevano cialde. Le cartomanti predicevano il futuro, i mercanti trattavano i carichi delle navi ancorate a punta della Dogana. Certo, i viaggiatori d’un tempo – “viaggiatori non turisti” specifica uno dei protagonisti di Té nel deserto di Paul Bowles – avevano una percezione assai ricca e articolata della città che li ospitava.

Certo, le maree dei consumatori “usa e getta” vanno disciplinate così come andrebbero disciplinate le acque della laguna, che d’inverno s’alzano pericolosamente a ingoiare tanti sestieri. Ma Venezia senza “foresti” tradirebbe il suo carattere di antica metropoli attenta ai commerci.
Del resto basta uscire dalle Mercerie, ed è subito silenzio. E pace.

Palazzi, statue, canali, ponti. E il mare 
Venezia Punta della Dogana
Punta della Dogana

Le calli, piccole e tortuose, s’aprono all’improvviso su piccoli campielli sorvegliati da qualche armorea creatura. Nessuna città come Venezia è abitata da tanti leoni alati, grifoni, basilischi, chimere o centauri, che affacciano dai palazzi, dagli angoli delle chiese, che si accovacciano negli scorci di qualche piazzetta, guatando in silenzio i passanti. Nessuna città come Venezia permette, a chi lo voglia, di ascoltare il rumore dei propri passi sul selciato. È ascoltando quel rumore che io – nella mia città, dove torno per lo meno una volta all’anno – scelgo di perdermi: benché ci abbia passato tutta l’infanzia, ne possiedo poco la toponomastica e dunque il rischio – il gusto – di perdermi è sempre presente.

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Ma è proprio questo sperdimento che io vado cercando: cammino veloce, puntando verso una delle estremità della città. Ed eccomi nel cuore dell’antico ghetto. Oppure, dalla parte opposta, all’Arsenale, o ancora, al di là di Rialto, verso le Zattere, a guardare la Giudecca, un tempo tutta orti e giardini, poi quartiere popolare, oggi molto ricercata. Il canale della Giudecca è il più grande della laguna, è maestoso come un vero braccio di mare, è solcato da grandi navi.

Il miracolo visto dall’isola

Eppure, il vero miracolo dell’isola sta nella vista che, una volta giunti lì, si ha di Venezia. Non più città ma piuttosto palcoscenico teatrale, con quinte, profili, fondi dorati. La Giudecca è stata, per me, una scoperta dell’età adulta: quand’ero piccola, le rotte familiari mi conducevano verso il Lido, dove facevo qualche bagno di mare prima di essere deportata in montagna, assieme alla tata.

Venezia Isola di Palestrina
Isola di Palestrina

Il Lido, quel Lido addormentato e di un lusso stantio che segna irreversibilmente lo stanco cuore del protagonista di Morte a Venezia, Gustav von Aschenbach, affaccia su un Adriatico pallido, sabbioso, assolutamente qualunque. Ma all’imbarcadero Santa Elisabetta è possibile prendere a nolo una bicicletta, fare i dieci chilometri degli Alberoni, salire con la bici sul traghetto che porta a Pellestrina, e percorrere per intero quest’isola magica, ferma nel tempo. Ancora abitata da pescatori i cui battelli sono attraccati davanti a certe piccole case che sembrano uscite da una commedia di Goldoni.
Più che un’isola Pellestrina è una lingua di terra, in certi punti così sottile, che si finisce per pedalare fra l’acqua verde, calma e marezzata della laguna e quella celeste, mossa, orlata di schiuma, del mare. In fondo a Pellestrina non resta che assicurare la bicicletta a un palo, salire sul vaporetto e scendere, pochi minuti dopo, a Chioggia.

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Itinerari inconsueti
Venezia Campo S. Maria Formosa
Campo S. Maria Formosa

In questo modo, a chi lo desideri, Venezia regala i suoi mari. E a chi voglia aggirare le folle urlanti che nei fine settimana si accalcano a piazzale Roma, cercando affannosamente un parcheggio, offre anche un’altra soluzione. Basta percorrere il Brenta in auto, arrivare a Fusina, lasciare l’automobile davanti alla stazione dei vaporetti e prendere il numero 16, che dopo una ventina di minuti e qualche fermata approda all’Accademia, proprio nel cuore della città. In questo modo, in una Venezia ferragostana che i cronisti locali descrivevano irraggiungibile, io sono andata e tornata in un solo pomeriggio.

Ho trovando anche il tempo di visitare uno dei più bei campi della città, Campo Santa Maria Formosa, dove ho giocato da bambina. Grande, assorto, elegante, nobilitato dall’omonima chiesa con la facciata in candida pietra d’Istria, nell’antichità Campo Santa Maria Formosa era teatro di feste e di cacce al toro. E ancora negli anni Cinquanta, nella sera dell’Epifania, era d’uso bruciare “la vecia”, un fantoccio con un grembialone, una ramazza e un fazzoletto che simboleggiava la befana.

Debbo al rogo della “vecia” il primo brivido di paura e di pericolo della mia vita: stringevo la mano della tata, guardavo le fiamme avvilupparsi attorno alla gonna, assalire la scopa di saggina, divorare il viso di cartapesta, provando un turbamento, un’emozione inspiegabili e mai conosciuti prima d’allora. Quello che vedevo non era il fuoco dell’inferno – eravamo una famiglia di laici e io non ero mai stata battezzata. Era piuttosto il fuoco dell’esistenza, che lambisce e ustiona anche le vite più quiete e riservate. Era il rischio stesso di crescere e di vivere.

Auto a Venezia ?
Venezia Le calle foto di F. Cepolina
Venezia Le calle

Mai! Rientrata a casa – un piccolo appartamento che affacciava su una calle così stretta che non ci si poteva aprire un ombrello da uomo – trovai i miei assorti in una delle loro discussioni.
Mio padre – un gentiluomo di famiglia meridionale tagliato per una vita di “calme, luxe et volupté” in cui allevare cani e fare corse in automobile – aveva deciso di aprire un autosalone a piazza San Marco. Voleva, mio padre, mettere un’automobile nel centro stesso della città. E così fece: dietro le Procuratie, a via XXII marzo – l’unica via di Venezia, che per il resto ha soltanto calli – fece sbarcare da una chiatta una fuoriserie che sistemò in una vetrina da cui oggi occhieggiano dei tappeti persiani.

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Benché abitasse a Venezia da anni, papà non aveva fatto i conti con la maligna testardaggine dell’acqua alta, che giunse a lambire i nobili ferodi della vettura; issata su dei cavalletti con un complicato sistema di pulegge, l’auto si salvò. Ma non così gli affari di mio padre. Che forse era un uomo troppo originale. O troppo in anticipo sui tempi, visto che vent’anni dopo la Ipsilon 10 realizzò uno spot in cui l’alacre vetturetta sfrecciava per ponti e campielli. In cerca di fortuna, papà decise di stabilirsi a Roma.

E il mio destino di bambina veneziana fu segnato. Non più lezioni di ballo nel teatro “La Fenice” non ancora tramutato in un falò. Non più passeggiate alle Zattere con gli occhi rivolti alla minacciosa sagoma degli ex mulini Stucky, bruciati anche loro. Non più notti dell’Epifania a campo Santa Maria Formosa, dove “la vecia” aveva smesso di essere mandata al rogo.
Da allora – sono passati molti anni – ho smesso di vivere a Venezia. Ma la città è rimasta, per me, un laboratorio permanente di emozioni. Del resto Kipling ( ecco il perché di Kim riletto proprio a San Marco) non scrive “lasciatemi i primi sei anni di un bambino e potete tenervi il resto”?

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