Una stazione radio del vicino Messico alterna lacrimose radio-novelas al martellante slogan autopromozionale: "Se siente, se siente, està la caliente". Sulla linea dell’orizzonte fiammanti locomotive gialle della “Santa Fe Railway”, tagliano la pianura trascinandosi dietro convogli che non finiscono mai.
È lui, Doroteo Arango, il proprietario di quella faccia rotonda da pragmatico contadino messicano che ti guarda da una teca del piccolo museo della vecchia stazione ferroviaria di Columbus; per essere precisi è una copia della sua maschera mortuaria, l’unica cosa di Villa su cui i “gringos” siano mai riusciti a mettere le mani.
Stati Uniti “invasi”!
E pensare che per vendicare l’affronto subito il 9 marzo 1916, quando circa cinquecento “villistas”, proprio a Columbus avevano compiuto l’ultima invasione del territorio continentale degli USA, il governo di Washington aveva spedito in Messico oltre diecimila soldati al comando del generale Perkins. Villa aveva deciso lo “sfregio” perché era stufo degli aiuti americani ai governativi che lo combattevano, infischiandosene sovranamente delle conseguenze, com’era nel suo stile.
D’altronde aveva ragione lui, perché la “spedizione punitiva” dell’esercito americano aveva vagato per oltre undici mesi tra canyon e deserti ma di Villa non era neanche riuscita a vedere l’ombra.
Il “Centauro del Norte”, come era chiamato negli anni gloriosi della prima grande Rivoluzione del Ventesimo Secolo, era fatto così; un impasto di follia e di furbizia contadina quasi “impresentabile” rispetto all’immagine granitica, e un po’ noiosa, dell’altro grande “caudillo” della Rivoluzione, Emiliano Zapata.
Battaglie nella Sierra
Ma anche se non troppo “politicamente corretto”, Villa è un personaggio affascinante che ha lasciato tracce indelebili in tutto il Messico settentrionale, un mondo aspro di deserti fioriti di cactus, su cui il vento passa fischiando per infilarsi nei canyon che nascondono le tracce di misteriosi pueblos indiani. Sembra quasi di sentirle alle proprie spalle, le ombre di Villa e dei suoi “dorados”, dietro l’ultima curva di una pista di pietre lisciate dal passaggio di migliaia di carri. che si arrampica tra le pareti rocciose della Sierra de Mapimì, nello stato di Durango.
Oltre una vecchia ghost-town mineraria, due torri in ferro trattengono i grandi cavi d’acciaio cui è appeso il ponte sospeso più lungo dell’America latina, oltre trecento metri, progettato nel 1898 dall’ingegnere tedesco Santiago Mingui. Scavalca un canyon cupo come le nuvole che il vento spinge giù dalla sierra, per raggiungere il buco nero della miniera di Ojuela. Da queste parti la Rivoluzione, quella raccontata dai murales di Rivera, Siqueiros e Orozco, è passata come un turbine di ferro e fuoco lasciando i buchi delle pallottole sul campanile del vicino villaggio di Mapimì.
Del resto Villa aveva cominciato la sua gloriosa carriera di rivoluzionario non lontano da qui.