
Il viaggiatore amante di tour culturali, magari annoiato dalle più comuni iniziative previste per quest’estate, potrà trovare a Trieste qualcosa di nuovo. Tre mostre, una sulla pittrice Leonor Fini, l’altra sulla comunità serbo-ortodossa, la terza su Fulvio Tomizza, attingono dal patrimonio storico cittadino per offrire una proposta espositiva inattesa.
Da luglio sino ai mesi autunnali sono aperte le rassegne “Genti di San Spiridione. I Serbi a Trieste 1751-1914”, al castello di San Giusto e “Leonor Fini. L’Italienne de Paris”, al museo Revoltella. Nel primo caso il tema è la pittura del Novecento, attraversata, in capitolo decisivo di storia dell’arte europea, con gli occhi di un’artista indipendente; nell’altro si parte dalla monumentale chiesa di San Spiridione per raccontare la cultura e le attività degli insediamenti serbi a Trieste. Palazzo Gopcevich ricorda, invece, i dieci anni dalla scomparsa dello scrittore Fulvio Tomizza con una mostra che riunisce fotografie e manoscritti ed è affiancata da un ciclo di conferenze e visite guidate.
Sacro e profano

Al castello di San Giusto si ricordano i tre anniversari: i 140 anni dalla consacrazione della chiesa di San Spiridione, i 240 dalla prima messa celebrata a Trieste in antico slavo ecclesiastico e i 130 dai rapporti diplomatici italo-serbi. La mostra segue il filo conduttore “dell’approfondimento sulle comunità storiche di Trieste”, ha detto Massimo Greco, assessore alla Cultura, “tra le quali i serbi, oggi, sono circa diecimila”.
La storia dei serbi a Trieste ha inizio nel 1751, quando l’imperatrice Maria Teresa diede loro la possibilità di erigere una chiesa. Quattro anni dopo si celebrava la prima messa nella chiesa di San Spiridione, sul Canal Grande. Nella sezione al primo piano, sono visibili alcuni oggetti di questo edificio, che fu abbattuto per fragilità strutturali per essere ricostruito nel 1868. In mostra i reperti della prima e seconda chiesa: del Settecento è la lamina in rame dorato presente sulla facciata, la preziosa chiave in ferro, alcune icone ed evangelari. Il racconto sacro si aggiunge al profano, con testimonianze e immagini di alcune famiglie di spicco della comunità serba.
La furia italiana di Parigi

Con Leonor Fini, la pittrice che trascorse infanzia e prima giovinezza a Trieste, si torna a parlare di arte visiva. Trasferitasi all’età di vent’anni, a Milano e cinque anni dopo a Parigi, la Fini maturò gran parte della sua carriera artistica in Francia, dove morì nel 1996. Max Ernst la definì “la furia italiana di Parigi”; in molti la chiamavano “la donna gatto”, per via delle maschere che amava portare in talune occasioni mondane. Il museo Revoltella le dedica il quinto e sesto piano per una mostra che raccoglie 250 opere, provenienti da collezioni italiane, americane, francesi. Quasi unica l’occasione di ripercorrere la ricerca artistica di una pittrice che conobbe la metafisica di De Chirico e si avvicinò al surrealismo, ma che sempre scelse una via stilistica autonoma. Donna affascinante e passionale, Leonor Fini conservò nella vita come nell’arte l’aurea di una forte personalità. La sua pittura non si allontanava dal figurativo, ma riservava atmosfere misteriose e cariche di simboli. A Milano aveva lavorato con Achille Funi: a Parigi, strinse legami con Max Ernst, Paul Eluard, Georges Bataille, Henri Cartier-Bresson, Salvador Dali e André Pieyre de Mandiargues.