Giovedì 28 Marzo 2024 - Anno XXII

Un francese a Mosca

L’esperienza di tre anni vissuti in Russia senza sapere una parola in cirillico a parte “da” e “niet”. Il racconto di Christian Kergal, direttore di Atout France Milano, l’Ente del Turismo Francese in Italia

Un francese a Mosca

Christian Kergal, direttore di Atout France Milano, l’Ente del Turismo Francese in Italia, vanta un’esperienza trentennale nel settore del turismo. Dopo studi di marketing e diritto all’Università di Montpellier, ha lavorato nel settore delle crociere marittime, per agenzie di viaggio, per i traghetti Brittany Ferries e in campo alberghiero. Dal 1991 al 2002 ha collaborato con il Comitato regionale per il Turismo Linguadoca-Rossiglione di Montpellier, ricoprendo differenti funzioni: responsabile per la promozione, direttore marketing e comunicazione, vicedirettore e direttore ad interim, prima di passare a Maison de la France. Dopo un periodo trascorso in Italia (dall’ottobre 2002 al giugno 2006) con la carica di vicedirettore, ha diretto la sede di Mosca della Maison de la France dal 2006 al 2009. Alla fine di tale mandato ha fatto ritorno in Italia. Al periodo trascorso in Russia si riferiscono i ricordi e le esperienze dell’articolo che segue.

Sguardi metropolitani
Sguardi metropolitani

Ma qui… nel cuore della Grande Russia, come fare? Non posso negare che il primo mese di permanenza nella capitale moscovita, dei tre anni complessivi che vi avrei soggiornato, sia stato davvero difficile; in qualche occasione, persino angosciante.

Anzitutto i caratteri cirillici delle scritte. Una marea di indicazioni incomprensibili, inizialmente misteriose come l’arabo. I nomi delle strade, le insegne dei negozi, i cartelli delle fermate degli autobus, quelli di “avvertimento” di qualsiasi genere, le indicazioni del metrò, i menù dei ristoranti, le richieste di “aiuto” ai passanti ecc.

Alle difficoltà appena elencate, grandi e piccole, si aggiungeva poi la sensazione strana – anche nella felice eventualità di una buona padronanza della lingua (e non era il mio caso) – che il contatto con la gente non avrebbe avuto grande successo.

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I russi, l’ho scoperto quasi subito, amano tenere la bocca chiusa. Sono diffidenti per natura, sorridono raramente, perlomeno con gli estranei. Ho pensato che questo atteggiamento potesse essere imputabile a non lontani retaggi sociali, grandemente influenzati dalla situazione politica un tempo esistente; per intenderci, dei tempi in cui la città intera era una enorme orecchia, sempre pronta a captare voci non in sintonia col regime. Tornando ai cittadini di Mosca, assuefatti loro malgrado all’atmosfera KGB e per tale motivo attenti a non farsi coinvolgere in situazioni che avrebbero causato problemi ben maggiori, è evidente come sia rimasto a fior di pelle questo tipo di comportamento che definire “riservato” appare puro eufemismo.

Prima di parlare, dunque, e ammesso che decidessero di farlo, dovevano capire a chi stavano parlando; il secondo ostacolo, logicamente conseguente, era che non avevano alcuna intenzione di capire perché questo tizio sorridente e volonteroso si rivolgesse proprio a loro e non ad altri; così, negli ascensori come in strada, nei luoghi frequentati e nelle vie del centro, alla disperata ricerca di un locale in cui mangiare qualcosa, la mia avventura iniziale si è spesso colorata di sconforto. Non voglio apparire esagerato, sia chiaro. Ma è indubbio che la mia “prima” Mosca sia davvero stata laboriosamente difficile.

Mosca: metà europea, metà no

Alla volta di Mosca
Alla volta di Mosca

Colleghi e amici mi hanno chiesto spesso quale sia il “ricordo” più vivo dei tre anni trascorsi a Mosca. Prima vengono le impressioni e le esperienze, non sempre positive, debbo dire. In seguito, i ricordi; alcuni dei quali gradevoli e particolari, proprio perché particolare era l’ambiente che ha favorito l’avvenimento, l’avventura, in seguito divenuti “ricordo”. Ma l’impatto iniziale non è stato dei migliori.

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Cosa fa un francese, appena messo piede in una metropoli estesa qual è Mosca, senza famiglia al seguito, completamente digiuno (“da” e “niet” a parte) della lingua che vi si parla? Erano due le alternative che mi si offrivano: mettersi a piangere, oppure cercare di affrontare – in posizione di assoluta difesa e prudenza – la nuova avventura che mi vedeva sbalzato in un’Europa diversa: certamente occidentale, ma anche terribilmente orientale (quasi siberiana d’inverno) per abitudini di vita, clima, atmosfere, difficoltà di contatti interpersonali, soprattutto a causa della lingua, sia scritta che parlata.

Le domande che mi ponevo già in fase d’atterraggio, cui cercavo di dare risposte sensate, assomigliavano maledettamente all’elenco della spesa che si fa in un qualsiasi supermarket, in assenza della moglie: una sfilza di beni di consumo da acquistare, non necessariamente solo quelli alimentari, cercando di non dimenticare nulla; detersivi e prodotti per l’igiene personale compresi. Sull’aereo, l’elenco mentale riguardava tutta una serie di domande-risposte che nella mia mente rimanevano pressoché inevase, preso com’ero dal timore di non trovare soddisfacenti vie di fuga; in altre parole: come me la sarei cavata?

Oltre alla mia lingua (Ah! Douce France…) parlo l’inglese, idioma non molto conosciuto dai russi e l’italiano, per esperienze di lavoro. Dovendo andare in un qualunque Paese dove l’inglese è masticato (vale a dire quasi dappertutto) i problemi assumono un aspetto abbordabile; fatto che si verifica anche nei Paesi latini, per via dell’evidente parentela delle diverse lingue col francese; in questo caso le difficoltà sono ancora minori, anche perché noi latini, esuberanti e “festaioli” come siamo, una qualsiasi forma di comunicazione – aiutata dalla “gestualità” – la troviamo in fretta.

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