Lunedì 11 Dicembre 2023 - Anno XXI

Trans Europa Express. Nel cuore del Continente

Nel 2008 il giornalista Paolo Rumiz intraprende l’ennesimo viaggio, un percorso a zigzag da Rovaniemi (Finlandia) a Odessa (Ucraina). Più avanza, più ha la sensazione di non trovarsi su qualche sperduto confine ma precisamente al centro, nel cuore stesso dell’Europa

Il Trans Europa Express
Il Trans Europa Express

 

Il treno per Odessa fila a centocinquanta orari nella luce verde della sera, scavalca fiumi color rame, scende verso il Mar Nero sul lungo piano inclinato dell’Ucraina. Lo scompartimento trema, pare indemoniato: sul tavolino è franata ogni cosa, e sulla cuccetta di sopra un tipo di centocinquanta chili russa e sussulta così paurosamente che temo precipiti anche lui. Intanto mi sono già caduti addosso il suo zaino, una pioggia di monetine e una bottiglia d’acqua minerale. Alla partenza mi ha chiesto: “Di dove sei?”. Gli ho detto “italiano”, e lui, ridendo incredulo, ha detto: “Ma che ci vieni a fare in questo paese?”.

 

Gli ho risposto con un sospiro, “La vostra è una terra meravigliosa“, ma lui si era girato su un fianco col suo corpaccione da plantigrado per piombare in un letargo istantaneo, come sotto anestesia, in una notte profondissima dei sensi. Prime stelle, hanno già il colore giallo fuoco della Provenza e della Turchia, sono così luminose che formano aureole sul vetro del finestrino, paiono le fiaccole celesti di un allucinato Van Gogh. Il gigante ucraino russa, ma per me è impossibile dormire in questa corsa folle sul filo del deragliamento. La mappa indica paesi mai sentiti, Zmerinka, Kolyma, Kotovs’k. Ma no, forse Zmerinka l’ho già sentita, ci è passato Primo Levi sul lungo treno che lo portò in Bielorussia e poi verso casa attraverso i Balcani dopo la liberazione da Auschwitz.

 

La motrice accelera ancora, ormai viaggia da due ore su un unico rettilineo – a est è così, dai Carpazi agli Urali niente curve ne tunnel – sembra voler compensare i pazzeschi zigzag del viaggio ininterrotto più lungo della mia vita, trentatré giorni finora, dal Mar Glaciale Artico al Mediterraneo, uno slalom gigante fuori e dentro la frontiera orientale dell’Unione europea. Odessa! La città mi chiama dopo seimila chilometri di terraferma, con quel suo nome imperioso da cantante lirica. E l’imbarcadero perfetto, il capolinea del ferry che mi porterà a Costantinopoli, che a sua volta è il terminal del treno che mi riporterà a Trieste lungo i Balcani, facendo al contrario la strada dell’Orient Express. Non sono l’unico sveglio nello scompartimento. Nell’altra cuccetta di sopra c’è un manager di Kiev che non smette di parlare al telefonino, ma tutto è coperto dal frastuono della corsa, colpi, tonfi, scossoni al limite del ribaltamento. Nel buio il macchinista cerca il mare come ipnotizzato dalla bussola inchiodata a sud-est, sfoga tutta la claustrofobia di questa landa sterminata senza approdi che è l’Altra Europa.

 

La notte d’estate è piena di treni a lunga percorrenza, bruchi luminosi che puntano a sud; roba da settanta, ottanta ore di viaggio, treni sovraffollati da Murmansk, Omsk, Ekaterinburg, Baku. Che avventura. Che incontri. Un pescatore di granchi giganti e floride venditrici di panna acida e mirtilli; un Rambo delle forze speciali in Cecenia diventato prete e una coppia inquilina di una sinagoga trasformata in stalla dai nazisti. Ho trovato un pastore di renne in guerra disperata con la Gazprom di Putin e uno scrittore di nome Lupo in una casa solitaria tra i laghi della profonda Carelia, a nord di Pietroburgo. Ho incrociato contrabbandieri e sommergibilisti, giovani guardiamarina appena promossi e comandanti di carrette arrugginite nei mari gelidi del Nord. Su un treno ho visto una folla di donne incollarsi alle cosce pacchi di dvd e sigarette usando lo scotch come giarrettiera, e lungo un fiume una vecchia di nome Ljuba con tre caprette al guinzaglio raccontarmi la sua Genesi del mondo. In Ucraina un branco di mafiosi ha picchiato sotto il mio naso un tassista che rifiutava di pagare il pizzo e in un ristorante in Bielorussia ho assistito al ballo scatenato di venti giovani parrucchiere, belle e felici di essere lì senza uomini.

Trans Europa Express. Nel cuore del Continente

Si crepa di caldo, il Podoi’skij Ekspress è una carretta sovietica ermeticamente sigillata per evitare spifferi, con addosso l’odore stratificato di generazioni di viaggiatori. Di conseguenza gli scompartimenti hanno la porta spalancata per catturare tutta l’aria possibile dai finestrini del corridoio,gli unici apribili. Esco in uno sventolio di tendine color caffè, il treno è in preda agli spiriti risucchiati dalla campagna circostante -rabbini galiziani, maniscalchi moldavi, squadroni di cavalleria polacca, violinisti zingari, commissari politici moscoviti e battellieri del Dnepr -, cerco di camminare dritto ma gli scossoni sono tremendi. Colpi secchi, laterali, come se un maglio colpisse il treno di fianco.

 

Sfioro col viso i piedi che fuoriescono a due a due dalle cuccette, piedi di donna, di bambino, di adulto, di vecchio; piedi russi e ucraini, nudi o con i calzini, tutti protesi verso l’aria, poi riesco ad aggrapparmi alla fessura del vento e a respirare a pieni polmoni. La notte è calda e profumata di erba, l’Ucraina stessa è una calda madre. Sotto la cuccetta c’è il mio vano bagagli con lo zaino e le scarpe. E tutto quello che ho. Sei chili di bagaglio, e poteva essere anche meno. Ho viaggiato su treni, corriere, traghetti, chiatte, talvolta in autostop e a piedi. In qualche occasione mi è capitato di maledire questa scelta – Rumiz, chi tè l’ha fatto fare di non viaggiare in automobile -, ma me la sono cavata sempre e sempre ho incontrato qualcuno pronto a darmi una mano.

 

Lo stato di bisogno mi ha fatto capire meglio la temperatura umana dei luoghi, le difficoltà sono diventate racconto e il viaggio si è fatto da sé senza bisogno che programmassi nulla. Sono partito zoppo per una recente frattura al piede destro, ho camminato penosamente per chilometri, poi ho buttato il bastone nel Mar Bianco, dopo aver incontrato un monaco sulle Isole Soloveckij, scommettendo che ce l’avrei fatta. Una storia anche questa. Grande, l’anima del popolo slavo d’Oriente. Mi bastava essere visto, col mio aspetto occidentale, mentre scendevo dal treno con la barba bianca, lo zaino e il passo claudicante, per essere preso in simpatia.

 

“Dove va?” mi chiedevano. “Da dove viene? Come mai non viaggia da turista? Non ha paura dei treni russi?” Mi bastava dire che ero italiano, che andavo a Istanbul e non avevo la minima paura dei russi perché la macchina dell’accoglienza si mettesse in moto. Si cominciava con un invito per un tè; poi il tè diventava una cena, e la cena diventava offerta di un letto per la notte. Monika dorme esausta nell’altro letto in basso. Nello zaino, chiuso nel vano portabagagli, qualche centinaio di rullini. Dorme sempre come un sasso, ma stavolta il sonno è di una profondità speciale. Ha lavorato per tre. Fotografa, interprete dal russo, intervistatrice; compiti che sa svolgere in simultanea. Senza di lei avrei visto meno della metà. Non avrei conosciuto la vecchia Ljuba e le sue caprette, non avrei raccolto le confidenze di un giovane russo del Nord appena uscito dal bagno penale, non mi sarei minimamente accorto che una casa privata nell’estremo Oriente della Lettonia altro non era che un ex luogo di culto ebraico, con il seminterrato ancora pieno di libri sacri dimenticati in mezzo a mozziconi di sigaretta e vetri in frantumi.

Trans Europa Express. Nel cuore del Continente

Vado verso la notte mediterranea, notte nera di Mare Nero, traversando le terre nere ucraine, e nella foresta di scambi declino come una litania tutti i toni della negritudine. Kara Deniz, Corne more, Cernozem, oci cërnye( Kara Deniz è il nome turco del Mar Nero; Come more, il nome ucraino; Cernozem significa “terra nera” in russo; oci cèrnye significa “occhi neri” in ucraino. [N.d.R.]). II buio, che meraviglia il buio dopo l’overdose di luce del Nord; e che benedizione immaginare il sole che scende in mare mentre gli osti di Odessa, Smirne e Costantinopoli, allineati sul filo della longitudine, stendono tovaglie bianche sui tavolini all’aperto e dalle finestre delle vecchie case arriva rumor di stoviglie.

 

Luci, profumi, praterie e torrenti hanno segnato le tappe di questo viaggio ai confini della notte, ma soprattutto gli alberi hanno punteggiato il nostro procedere verso sud. Prima le betulle, poi i tigli, poi le querce, quindi le vigne, i platani e i fichi. Non potrò mai dimenticare l’emozione dell’incontro col primo tiglio e il primo ippocastano in Estonia. Ne ho pronunciato i nomi, come quello di un amico che non vedevo da tempo. Potevo andare da sud a nord, per evitare temperature estreme e compensare con il procedere della stagione calda i rigori del Nord. Ho scelto di fare il contrario, per dilatare la latitudine con il calendario. In questo modo, invece di trenta paralleli, è come se ne avessi attraversati cinquanta, e invece di un mese ne ho vissuti tre, quelli che intercorrono tra la fine dell’inverno e l’inizio dell’estate. Nevicava a Murmansk, appena un mese fa, e per resistere avevo dovuto indossare tutti i miei vestiti sovrapposti. Ora grondo di sudore come alla periferia di Calcutta. Mi rendo conto che davanti a me, in questo mese, si è dispiegato un ventaglio inimmaginabile di scenari. Laghi gelati e campi di grano, freddi albori tra le foreste e notti sensuali del Sud.

 

Un viaggio “verticale”, che mi ha trascinato verso il basso del mappamondo quasi per forza di gravita. Non esistono carte che contengano tutta l’Europa dal Mare Artico al Golfo della Sirte. In senso longitudinale sono sempre mappe parziali, che difficilmente vanno più a nord di Pietroburgo. Questo mi ha reso difficile non solo programmare, ma persino immaginare il viaggio. Prima della partenza le distanze mi sfuggivano. Le immense terre boreali erano troppo rimpicciolite, quelle verso il Mediterraneo esageratamente dilatate. Così ho dovuto costruirmi una carta mia, trasferendo pezzi di diversi atlanti su un’unica striscia di carta in scala uno a un milione, altra e stretta, piegata a fisarmonica. Lì ho segnato in rosso il mio itinerario possibile, lungo migliaia di verste, e accanto la Frontiera in blu, e tra le due linee era come un corteggiamento, un infinito cercarsi. Ai margini del foglio, come in un dazebao, un mare di annotazioni tratte da libri, mappe russe, notizie raccolte disordinatamente da altri viaggiatori. Dopo la partenza non vi ho aggiunto più nulla. Troppa era la concentrazione necessaria all’andare per star lì a cesellare il mio foglio.

 

I nomadi lo sanno: le mappe non servono a orientarsi, ma a sognare il viaggio nei mesi che precedono il distacco. Sarebbe stato un atto blasfemo aggiungere appunti di cose viste realmente alle note sulle cose sognate o immaginate. Così la mia mappa sulla Frontiera dell’Europa è diventata intoccabile, la rappresentazione di un altro fantastico viaggio. Mi ci tuffo, per rievocare quei momenti magnifici, di febbre e di paura, che segnano ogni vigilia di partenza. Mi perdo in una foresta di annotazioni. La sinagoga di Hodna, il mago di Lublino, i monumenti di Pinsk, Daugavpils e la grandezza decaduta. Leggo sul confine russo-finlandese: “Linea Mannerheim, fortificazioni immense in mezzo ai boschi”. Oppure: “Minoranze Setu, estoni di lingua, ortodosse di fede e pagane di mentalità”.

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