
Loro, quelli della sua tribù, hanno preso interi quartieri a Mandalay, quelli nuovi, cresciuti troppo in fretta, quando una decina di anni fa la città si è aperta ai commerci. In odore di guadagni, i cinesi sono prima sbarcati in remote cittadine appena oltreconfine. Poi hanno chiamato parenti e amici. Quindi si sono spostati sempre più a sud, verso Mandalay e Rangoon, seguendo piste più fruttuose. Si dice che abbiano due passaporti: uno cinese, autentico, e un altro birmano, ma falso. Si sono mossi l’uno sulla scia dell’altro. Come li abbiamo visti fare in Europa e negli Stati Uniti. Con i soldi è arrivato il gioco d’azzardo. E poi la prostituzione a uso degli stranieri: cinesi, molti di Hong Kong, ed europei, turisti senza scrupoli disposti a sfruttare la mi- seria altrui approfittando anche di ragazze adolescenti. Come quella che ora il cinese mi sta proponendo: è in piedi e mi tende la foto di una giovinetta seminuda. Mandalay, l’irriverenza del detto popolare la etichetta come la “città delle quattro P”: pagode, preti, porci e prostitute. Forse si dovrebbe aggiungere anche P di progresso, o presunto tale. Al primo impatto la città appare esageratamente proiettata sulla via della modernizzazione, con un caos di auto, moto e biciclette che la invade. La via principale dove mi trovo è un susseguirsi di negozi, bar, sale da tè ed edifici costruiti alla rinfusa, come affastellati l’uno sull’altro, senza criterio, dove il cemento si mescola ai mattoni e al ferro dei palazzi incompiuti. Si costruisce per approssimazione progressiva, a volte a strati, a volte a fette, con facciate slanciate e strette che sembrano una quinta teatrale che nasconde il vuoto. A volte il ritmo della diversità è interrotto da un negozio più spazioso che di sera si illumina troppo, tanto da far luce come un faro sulla strada buia percorsa dalle deboli luci dei risciò. Sono i primi segni dell’iniziativa privata. La Birmania, dopo anni di segregazione totale dal resto del mondo, ha aperto le porte al capitalismo. Dal 1996 la dittatura ha cambiato il colore della bandiera, che da rossa è diventata rosa. Sempre più sbiadita sul piano dei principi socialisti, sempre più corrotta in campo ideologico e pratico. Il dollaro, ripudiato come pericoloso germe di esterofilia, è diventato un ospite prezioso. Il regime ha dichiarato il 1996 anno del turismo e ha tappezzato le vie con cartelli del tipo: “Aiutate i viaggiatori in visita al nostro paese”. Gli investimenti stranieri e i turisti sono stati accolti a braccia aperte, come liberatori. I demoni sono divenuti angeli, dispensatori di ricchezza. Ma dei benefici hanno goduto solo i potenti, che si sono ingrassati, che si sono fatti palazzi e auto nuove, che hanno aperto conti in banche estere, che hanno investito in gioielli. Per gli altri, per i sudditi, non è cambiato nulla. Per loro la vita ha continuato a scorrere come al solito, in semplice e dignitosa povertà. E la Birmania è rimasta uno dei paesi più poveri dell’Asia. Con un reddito annuo pro capite di settecentosessantacinque dollari si trova al penultimo posto, prima dell’Afghanistan.

Nel libro reportage Estremi Orienti racconta di essere andato a trovarla in University Avenue e di essere ripartito profondamente scoraggiato: “II giorno che ho lasciato Rangoon la businessclass dell’aereo era al completo, i sedili erano occupati da uomini d’affari in giacca e cravatta. Sembrava che provenissero tutti dai centri del boom economico asiatico. Erano lì a fare affari. Ho guardato giù, verso la città che svaniva in lontananza, e mi è tornato in mente un commento che Suu Kyi aveva fatto alla fine del nostro incontro: ‘Le ho sempre detto che vinceremo, ristabiliremo la democrazia e terrò fede a questo, ma non posso prevedere quando ciò avverrà'”. “Paese del mistero dorato”, “meraviglia ammiccante”, scriveva incantato Rudyard Kipling nel 1898. La Birmania non è più così, ma una galera per tante e tanti Suu Kyi. “Nessuna terra che tu conosci potrà essere come lei”. Seduto sui gradini della lunga scalinata che sale lungo la Mandalay Hill, la collina che si erge a nord della città, leggo Lettere dall’Est. Kipling si è innamorato di questo paese. Dopo aver girato in lungo e in largo l’Oriente dichiara: “Amo i birmani con il cieco favoritismo della prima impressione. Quando morirò vorrò essere un birmano, conventi iarde di seta regale, tessute a Mandalay, attorno al mio corpo”. Cerco di immaginarmi quello che lo scrittore-viaggiatore poteva aver visto, qual era stata la fonte dell’incantesimo. Per questo ho deciso di salire fin quassù, in cima alla collina, a duecentotrenta metri di altitudine, dopo novecentonovantaquattro gradini che si percorrono a piedi scalzi. Rivedo con gli occhi di Kipling un mondo immoto e per un momento resto incantato. La pianura sottostante è un tappeto di campi di riso che vanno a infrangersi contro Pirrawaddy. La luce della sera cade con pennellate d’ambra sui contadini che rientrano a casa sopra i carri trainati dai buoi dalle lunghe corna. Oltre il fiume, si protende come un’ombra incerta che sfuma nel blu scuro l’altopiano Shan. Sulla cima della collina è stata eretta una pagoda che è un tripudio di specchietti, immagini di spiriti e infiniti Budda in tutte le posizioni. Un gruppo di monachelle vestite di rosa, con una sciarpa gialla color zafferano appoggiata sulla spalla, testa rasata, si rincorrono sull’ampio terrazzo che si affaccia sulla piana. Più che bambine sembrano figure androgine dagli occhi sfuggenti. Ridono se le guardo troppo. Forse sono un po’ troppo irriverente, ma mi accorgo che la loro curiosità è più forte della mia. Alcune mi squadrano dalla testa ai piedi e si avvicinano per fare un check-up completo del bianco venuto dall’Occidente.

Faccio il giro del terrazzo. Sul lato ovest è stata disposta una serie di poltrone a semicerchio. A fianco è stato imbandito un tavolo con un buffet di paste, bibite analcoliche e tè. Una catenella delimita l’area perché non entrino ospiti indesiderati. “Aspettiamo i vip del partito” rivela un monaco dal viso smunto che si sta affaccendando con tazze e bicchieri. “Tra poco tutti dovranno uscire, nessuno potrà starsene qui. Anche gli stranieri.” Penso a Kipling e al mio incanto che è già svanito. Sulla collina di Mandalay i turisti vengono a osservare il tramonto e si perdono nella malinconia della pianura che sprofonda nel buio. Oggi però lo spettacolo è riservato ai politici. Domani li vedrò in televisione, in divisa, seduti fianco a fianco, immobili come bambini a bocca aperta davanti allo schermo del cinema. Sono tutti rigorosamente a piedi scalzi, in omaggio alla tradizione birmana buddista secondo la quale anche i politici devono togliersi le scarpe nei luoghi sacri. Anche loro diventano gente comune nella casa del dio. Avvicino il monaco addetto al buffet; dalle sue prime parole sembra molto contento delle venuta dei politici. Insiste sulla parola money con molta deferenza, abbassando gli occhi con rispetto: “Grazie a loro possiamo mantenere il tempio, le offerte dei fedeli non basterebbero, sono sempre così poche…”. Poi mi mostra una serie di grandi pannelli che espongono le foto dell’inaugurazione del nuovo ascensore, dove i militari si stringono le mani a vicenda.
“Senza il loro contributo si dovrebbe salire a piedi.” Mandalay è il Vaticano della Birmania, un concentrato di vesti rosse e bordeaux, diecimila bonzi distribuiti in un centinaio di monasteri. Se si esclude la pagoda Shwedagon di Yangon, che vanta come reliquia otto capelli di Budda, qui ci sono i templi buddisti più importanti della Birmania. Grande è la devozione popolare alla pagoda Mahamuni, dove i fedeli, tra i fumi dell’incenso, fanno la coda per applicare una sottile foglia d’oro sulla statua di bronzo di un Budda di quattro metri. Le lamelle hanno creato un tale spessore che è ormai quasi impossibile riconoscere i tratti originali dell’Illuminato. Alla fine degli anni ottanta, dai monasteri di Mandalay era partita alla chetichella una pericolosa sfida nei confronti del regime […].
(05/04/2013)