Brussels è una città morbida. Il nome pronunciato alla francese rotola sulla lingua e sembra voler fuggire via e invece poi resta al suo posto. E’ morbida nelle abitudini, nei caffè sparsi un po’ ovunque che aspettano il primo squillo di sole per colonizzare i marciapiedi, nei boccali di birra chiara, nella “gueuze” (birra tipica belga) fermentata e pastosa, nelle “gaufres”, cialde tiepide ricoperte di fragole e panna da mangiare per strada, sporcandosi naso e mento con voluttà. Brussels è morbida nei fiumi di cioccolato che si compera dappertutto, nei negozi delle catene più famose di Nahuaus e Godiva come nelle boutiques pasticcere di Place du Grand Sablon, Marcolini e Wittar, dove la domenica mattina i brussellesi doc fanno la fila per comperare torte e praline, pasticcini e bon bon.
Brussels e l’impronta dell’Art Noveau
Brussels è morbida e rotonda come l’art noveau, che qui ha segnato una stagione architettonica straordinaria e vivace, i cui frutti si vedono ancora oggi e in qualche modo hanno influenzato progetti più recenti. Come il Palazzo del Parlamento Europeo, ribattezzato familiarmente “caprice des Dieux” dagli “indigeni” belgi. Costruito nel cuore del cosiddetto Quartiere Europeo, silenzioso e vuoto durante i fine settimana, questo edificio (372.000 metri quadrati di uffici) domina il parco Leopold con la sua struttura scintillante di vetro e acciaio, che ricorda un enorme juke box anni Cinquanta. Chissà cosa ne avrebbe pensato Victor Horta (Gent, 1861 – Bruxelles, 1947) convinto che ogni edificio dovesse rispecchiare il carattere dei suoi abituali frequentatori.
Allievo di Alphonse Balat, che assistette nella realizzazione delle Serre Reali di Laeken volute da Leopoldo II, Horta divenne definitivamente famoso quando progettò la Maison Van Eetvelde, in rue Palmerston; aveva solo trentaquattro anni. In una Brussels dominata da famiglie borghesi sempre più ricche e potenti, espressione di un’industria siderurgica e mineraria al proprio apogeo, il giovane architetto trovò da una parte clienti facoltosi e dall’altra nuovi, duttili strumenti: cemento armato, vetro e sopra a tutti il ferro, da modellare in infinite, sinuose forme spesso ispirate al mondo vegetale.
L’art noveau diventò rapidamente il marchio di una classe laica e progressista, mentre la frangia cattolica ne bollava le curve seducenti come peccaminose; non a caso il primo edificio pubblico progettato da Horta fu il “Padiglione della passioni umane”, all’interno del Parco del Cinquantenario e lo scandalo fu tale che le autorità dovettero sequestrarlo per motivi di “immoralità”.
Oggi la bellezza di Brussels, la sua morbidezza, sta anche in questo fiorire improvviso di grazia architettonica, elegante e leggera, concentrata soprattutto nel quartiere dello shopping ricercato, il quartiere Louise, in quello di Ixelles, raccolto intorno ai gradevoli omonimi stagni e nello stesso Quartiere Europeo.
Nel segno dell’architetto Horta
Naso all’aria e occhio attento, cercando di non farsi distrarre dalle lusinghe delle “griffes” internazionali, si può partire per una personalissima spedizione proprio da Avenue Louise, viale che tanto ricorda i parigini Champs Elysées. Nei dintorni si trovano l’Hôtel Tassel, considerato un manifesto dell’art noveau, con le sue colonne palmiformi all’ingresso e la pozza di luce del vestibolo costruito a mo’ di serra e l’Hôtel Solvay, commissionato ad Horta da uno dei rampolli della omonima e potente dinastia industriale. Ma anche la Maison Hannon di Jules Brunfaut, oggi occupata dallo spazio fotografico Contretype e quasi di fronte un edificio di Pelseneer ribattezzato “I gufi”, per le decorazioni della facciata. O ancora i grandi magazzini Old England, che oggi ospitano gli oltre settemila strumenti del “Museo degli strumenti musicali”.
E se il proprio vagare condurrà fino a rue Américaine, sarà il “Museo Horta” ad accoglierci. Tutto è rimasto come quando vi abitava l’architetto: le oltre mille curve di ferro battuto, le specchiere a cornici mosse, le poltrone, i paracamini, i corrimano. Ogni particolare, qui, cattura lo sguardo e lo avvolge in un turbinio di curve e colori, mentre la luce, calda e delicata, filtra dalle vetrate ispirate a Tiffany e rende morbida ogni cosa.
Le serre reali di Laeken
Ferro e acciaio, tondeggianti ma “nervose” nei contorni frastagliati e ricchi di decorazioni. I padiglioni delle serre si vedono da lontano nel paesaggio piatto della pianura belga e di notte, illuminati dall’interno, sembrano il luogo adatto per credere alle fiabe. Simbolo del privilegio reale, volute da Leopoldo II, re promotore di grandi opere urbanistiche ma anche appassionato di botanica, le Serre reali di Laeken si aprono solo per pochi giorni l’anno in primavera e tutti, belgi e non, sono chiamati a goderne. Cordoni di poliziotti smistano il traffico, cortesi ma inflessibili e guidano i visitatori lungo percorsi ben precisi. Il Castello Reale, poco più in là, domina un lungo viale ma non è affare per comuni mortali.
La delusione, ammesso che ci sia, dura però il tempo di entrare nelle serre.
Varcata la soglia, tutto è stupore. Per la ricchezza dei tappeti fioriti di colori sgargianti ai propri piedi, per la macchia rosa delle Medinillae che contrastano con il verde profondo delle foglie lucide, per le gallerie compatte e pesanti di fiori di Fuchsia. A far da cornice a questa esplosione di eterna primavera, le serre stesse in tutta la loro bellezza. Progettate da Alphonse Balat (1819-1895) e considerate il primo esempio di Art Noveau in Belgio, nacquero inizialmente come giardino d’inverno e si arricchirono man mano di altri padiglioni, collegati tra loro da scale, corridoi, gallerie, fino a diventare una specie di palazzo “altro”, nel quale lo stesso Leopoldo decise di trasferirsi durante gli ultimi anni di vita.
Ecco allora una Chiesa, oggi sconsacrata, che poteva ospitare fino a ottocento persone, la Serra Teatro, il Padiglione delle Palme e tutto intorno piante, opere d’arte, ricordi dei viaggi reali. Leopoldo, infatti, non riportava solo oggetti dai propri viaggi, ma anche fiori e piante rare, come la Camelia japonica “Barrii” da un vivaio di Pallanza, sul LagoMaggiore.
Non tutte le serre, oggi, sono visitabili; il percorso fattibile è di circa un chilometro su un dislivello di una decina di metri. Si parte dalla Débarcadère, con la volta a botte sostenuta da sottili pilastri che sembrano dividere lo spazio in piccole navate e si conclude con il Giardino d’inverno. Qui, dai pavimenti a mosaico, sembrano nascere felci e orchidee, datteri e zenzeri, palme cinesi e aralie. Tendono tutti verso l’altro, verso gli archi incrociati che, come petali di un fiore, sostengono la cupola e più in alto ancora, una lanterna a dodici facce. Si dice che, il giorno dell’inaugurazione, il sovrano volle intrattenersi qui con tutti gli operai aspettando che scendesse la sera per accendere le luci. E quando fu ora, insieme alla sera scesero il silenzio e l’emozione.
Info: www.belgio.it