Le vicende economiche di Linares non sono floride, come peraltro in tutta la Spagna franchista, appena uscita dalla Guerra Civile; e l’Andalusia è tra le regioni più povere. La cittadina, poi, campa soprattutto con le miniere circostanti, un tempo attive, adesso improduttive, prossime alla chiusura.
Soldi o non soldi, in occasione della Feria de San Agustìn, può la “aficiòn taurina” (straripante quanto l’orgoglio andaluso e la voglia popolare di “gozar de la vida”, godersela) rinunciare a una “sensacional, extraordinaria, monumental corrida de toros”? No per certo! I reboanti aggettivi sono regolarmente presenti sui “carteles” (manifesti) annuncianti questo genere di spettacolo.
Dopo la guerra civile, finalmente una grandiosa corrida
E a onor del vero la corrida organizzata è di tutto rispetto. Per i “toristas” (gli aficionados convinti che in una corrida è più importante il toro del torero) costituisce assoluta garanzia la presenza dei Miura: “los toros de la muerte”, sette toreri uccisi tra il 1862 e il 1894; il Gotha delle “ganaderìas” (allevamenti) bestie possenti non meno che veloci, armate di “astas” o “pitones”, corna tremende.
Ma anche i “toreristas”, quelli che assicurano come un matador possa trasformare una bestia mansueta in combattiva e quindi “salvare” una delle migliaia di Fiestas Nacionales che si celebrano annualmente in Spagna, sono certi di investire bene le pesetas necessarie per una “entrada” (biglietto); meglio se nei posti all’ombra, provvisoriamente caldi quelli “sol y sombra”, mentre – se qualche provvida nuvola non ti dà una mano – rischi di arrostire sotto il sole agostano nei gradoni in pieno sole.
I toreri di Linares: i migliori di Spagna
E’ infatti prevista la presenza di tre grandi matadores. Rafael Vega de los Reyes alias Gitanillo de Triana (il piccolo zingaro del più tipico quartiere popolare di Siviglia) torero di grande esperienza. E c’è Luis Miguel Dominguìn, ormai più che una promessa. A garantire lo splendido futuro che lo avrebbe reso famoso (celebri i suoi testa a testa con Antonio Ordoñez, narrati da Hemingway in “Un’estate pericolosa”) bastava la sua nobile discendenza da una casta (i Gonzalez) torera per eccellenza; nella tauromachia i figli d’arte sono assai frequenti.
Per non parlare (“last but not least”, direbbero gli inglesi) del terzo grande protagonista del “cartel”, l’eccelso e famoso Manuel Rodriguez Sanchez, soprannominato Manolete. E’ già celebre e come tutti i grandi Maestros della tauromachia ha già inventato un passaggio, la Manoletina. Solo per lui la Plaza de Toros di Linares, festeggiante San Agustìn, si sarebbe riempita all’inverosimile.
“A las cinco de la tarde” (nella Spagna d’antan la puntualità era un optional, ma quanto all’ora di inizio di un “sensacional acontecimiento” taurino non si sgarrava mai) comincia la corrida.
Una sfida fra “grandi”
Al quinto dei sei tori previsti (due per ogni matador) il Miura “Islero”, Manolete si ritrova psicologicamente in difficoltà e dio sa quanto il mestiere di torero imponga una testa sgombra da incubi e pensieri. Gitanillo e Dominguìn hanno già “cortado una oreja” (tagliato una orecchia) ciascuno, che gli è stata concessa in premio dal presidente della corrida per una buona “faena” (fatica), lavoro nell’ultimo “tercio”, quello con la muleta e corretta uccisione finale del toro.
Lui, invece, con il primo dei suoi due tori, è stato “abroncado” (sgridato) dal “respetable” (il pubblico) per una prestazione poco convincente.
Cominciata felicemente con alcuni passi eseguiti con il “capote”, la sfida di Manolete con il Miura prosegue con una “faena” all’altezza della sua fama e sta per concludersi con l’uccisione del toro. Con la “muleta” all’altezza della cintura e la spada rivolta verso il toro, ben salda nella mano destra, giunge l’ennesimo “momento della verità” per il terzo “Califa” di Cordoba; così sono chiamati i grandi toreri provenienti dalla splendida città andalusa, negli anni Mille capitale di un celebre Califfato: il primo “Califa” Lagartijo, il secondo Guerrita, quarto e ultimo, arcinoto idolo delle donne, El Cordobès, tecnicamente sprovveduto ma così spaventosamente coraggioso da essere lui ad assalire il toro.
La fine di Manolete
L’espada si dirige verso “Islero”, ma viene colpito alla coscia dal corno destro con immediato, copioso dissanguamento. Sono le 18 e 42 del 28 agosto 1947. Tra poche ore scomparirà Manuel Rodriguez Sanchez e avrà inizio il mito di Manolete.
Un mito destinato a protrarsi nel tempo, perché recente oggetto di cult cinematografico: è già in programmazione negli Usa, e giungerà in Europa in autunno, un film sulla sua vita, diretto dal regista danese Menno Meyjes e interpretato dal premio Oscar Adrien Brody (impressionante la somiglianza con il torero) e Penelope Cruz.
L’agonia del torero colpito dal Miura è struggente. Dopo il suo trasferimento nell’infermeria della Plaza, durato ben sette minuti a causa di un errore (nel trambusto gli uomini della sua “cuadrilla” lo avevano portato al “patio de caballos”) segue il referto medico. Manolete risulta vittima di una “herida de asta de toro de 20 centimetros de longitud de abajo a arriba y de dentro a afuera, con rotura de la vena safena y contorneando el paquete muscular nervioso de la arteria femoral”. Una terribile incornata che ha strappato l’arteria fenorale.
Fumando un sigaro il ferito dice di non sentire la gamba.
Alle 23 il Califa viene trasportato all’ospedale di Linares. E qui, alle 5 e 07 del 29 agosto, pronuncia le sue ultime parole: “Què disgusto le voy a dar a mi madre! Don Luis (Gimenèz Guinea, il medico della Plaza de Toros di Madrid, ndr) que no veo, no veo nada”. A Manolete si annebbia la vista e sfugge la vita. La Spagna lo piange a profusione e il “Generalisimo” Francisco Franco proclama tre giorni di lutto nazionale.
Ogni anno, garofani nell’arena
28 agosto 2007. Linares, sessantesimo anniversario della scomparsa di Manolete. Come accade invariabilmente da quasi sei decenni, alle 18 e 42 la corrida della Feria de San Agustìn è brevemente sospesa e mentre vengono deposti alcuni “claveles” (garofani) nel punto ove “Islero” colpì a morte, la aficiòn commemora il “malogrado” (sventurato) torero proclamando: “Gloria al grande Manolete!”.
Ma chi fu mai Manuel Rodriguez Sanchez per divenire un mito?
Manolete nacque a Cordoba il 4 luglio 1917 in una famiglia di toreri e fu più che un “figlio d’arte”. Oltre al padre “matador de toros” altri suoi parenti avevano a che fare – come “banderilleros” o altre mansioni – con la Fiesta Nacional; secondo alcuni, inoltre, un suo prozio (infausto presagio nella saga familiare) era stato vittima di un Miura. La madre, doña Angustias, dotata di forte personalità, fu sempre autorevolmente presente nelle vicende sentimentali di Manuel.
Gli anni dell’ascesa
Trascorsa la tipica infanzia di un ragazzino andaluso: i “tori nel sangue”, se mai non fossero bastate le ascendenze e le frequentazioni familiari, le monellerie e le scorribande notturne nella campagna bagnata dal Guadalquivir, a tredici anni Manuel è brillante allievo della Escuela Taurina di Montilla. Si tratta di un’età, a quei tempi resi bui dal ricorso al lavoro minorile nelle fabbriche e nei campi, abbastanza normale per apprendere l’arte del “toreo”; fortunatamente non esistevano ancora le storture dello sport d’oggidì che costringono bambini di sei anni o poco più a trascorrere tante ore di una giornata con una racchetta in mano o cavalcando una moto. Il 25 maggio 1935, a Madrid, nella scomparsa Plaza de Toros di Tetuàn de las Victorias, non ancora diciottenne, Manolete debutta come “novillero” (una sorta di apprendista-principiante, non pagato, autorizzato ad affrontare solo i tori di età inferiore ai quattro anni).
La stoffa c’è, aumenta l’attenzione della “prensa” specializzata, ma la gavetta è lunga e passa attraverso la “presentaciòn” (26 maggio 1938) alla Real Maestranza di Siviglia; nella storica Plaza all’ultimo dei Rodriguez Sanchez è riconosciuto un “gran exito”.
La consacrazione a matador
Siamo nel pieno della Guerra Civile (scoppiata il 18 luglio del 1936) che al Manolete “civile” procura pericoli; soldato di artiglieria, racconterà momenti di paura sotto le bombe, ma quantomeno non impedisce o rallenta la carriere al Manolete torero.
Al momento dell’ “Alzamiento”, la sollevazione, Cordoba fa parte del Bando Nacional; quella parte di Spagna franchista che oltre a voler dare un’impronta di normalità ai territori occupati, intendeva mantenere quando non rafforzare le tradizioni più antiche e genuine del Paese; tra queste la corrida.
Terminata la guerra non può tardare il conseguimento della “alternativa”, la consacrazione ufficiale a “matador de toros”. Una sorta di laurea, di dottorato, che permette di “lidiar reses” (combattere animali) di quattro anni compiuti, che Manolete ottiene – sempre nella sivigliana Maestranza – il 2 luglio 1939.
Due le curiosità in occasione dell’avvenimento. Secondo matador, che assistette come testimone al conferimento della “alternativa” da parte del padrino (il celeberrimo Manuel Jimènez, Chicuelo) fu Gitanillo de Triana, destinato a partecipare alla tragica corrida di Linares. Ulteriore “chicca”, il toro destinato alla cerimonia si chiamava “Comunista” (pur essendo completamente nero …) ma, visto il clima politico (Franco aveva vinto la Guerra Civile da soli tre mesi) fu convenientemente ribattezzato “Mirador”. La sua testa è esposta al Museo Taurino di Cordoba.
All’ormai consacrato Maestro cordobese non mancava che la “confirmaciòn” della “alternativa”, la cerimonia finale, doverosa se non obbligatoria, una sorta di superlaurea (per non chiamarla “libera docenza”) che ogni matador deve tradizionalmente sostenere a Madrid nella Plaza de las Ventas, l’università della corrida. Eccola, il 12 ottobre 1939 (Dia de la Hispanidad, ai tempi di Franco più noto come Dia de la Raza) dalle mani di un’altra grande figura, Marcial Lalanda (in suo onore venne addirittura composto un “paso doble”: “Marcial eres el mas Grande”).
Leggenda vivente
Inizia così la leggendaria vicenda di Manolete; diventa l’idolo delle Plazas di Spagna, e non solo: dopo alcune “temporadas” a sud dei Pirenei nel 1945, compie trionfali trasferte in Messico, Perù, Venezuela e Colombia. Un delirio di gente, di consensi, di applausi. Il grande torero cordobès fu (per dirla sportivamente) un campione, un fuoriclasse, grazie a doti mirabilmente congiunte.
Max David, indimenticabile inviato del Corriere della Sera, così esperto conoscitore di tori e corride da far scrivere a Hemingway “…ti invidio, avrei voluto saperle io tante cose”, in “Volapiè” scrisse che, come Belmonte, Manolete fu grande “perché seppe infondere negli spettatori un senso tragico della corrida”. Ma non solo, ovviamente. Memorabile era la sua capacità di “fare la statua”, di non arretrare di un passo, di dominare il toro mediante piccole e impercettibili mosse, movimenti, di limitarsi all’essenziale evitando “adornos”, pose superflue, smancerie.
Grande contributo a questo stile secco e asciutto, le sue caratteristiche fisiche, la sua figura, lo sguardo flemmatico, il volto lungo quasi ieratico (facile pensare a un personaggio de El Greco) il bel portamento (in una foto veste una giacca doppio petto con l’eleganza di un baronetto inglese).
Impressionante era poi la sua freddezza, il distacco, la precisione, nella “suerte” suprema che con “Islero” fu sinonimo di morte; concetto, quello della morte, che – a differenza degli italiani – gli spagnoli affrontano con una certa indifferenza, quasi si trattasse di un avvenimento, di un fatto “normale”.
Bravo? Non solo. Affabile comunicatore
La grande tecnica e le capacità artistiche del Manolete taurino non sarebbero comunque bastate per creare il mito di colui che delle corride era divenuto il “monstruo”. Come a ogni personaggio di successo, occorreva un robusto corollario (l’odierno gossip) di notizie sulla sua vita privata (comportamenti, frequentazioni) e soprattutto riguardo quella sentimentale.
Figlio (come si diceva una volta) del popolo, il “Tercero Califa de Cordoba” non poteva vantare quel livello di conoscenze e di esperienze di vita, chiamato “cultura”, ai suoi tempi (soprattutto in Spagna) pressoché totale monopolio della cosiddetta classe borghese. Ciò non di meno, venuto a contatto con il mondo del giornalismo e delle lettere durante le “tertulias” (chiacchierate) che si tenevano a Madrid al termine di cerimonie e pranzi (esistono belle foto di cene nello storico ristorante Lhardy) Manolete seppe sempre conquistarsi l’attenzione e la simpatia degli interlocutori, grazie a quello che potrebbe essere definito il “buon senso comune”, una innata capacità di stare e saper comunicare con la gente.
Un amore contrastato (dalla madre)
Quanto alle vicende sentimentali, il povero, grande torero fu (per fare un comodo esempio) tutto l’opposto di quei personaggi che oggidì sono immortalati e pullulano sui rotocalchi e in tivù. Con le donne Manolete non fu una frana, ma certamente non fu nemmeno, come dicono in Spagna, un “galàn” (sciupafemmine).
Schivo, timido, ma soprattutto assai dipendente dai gusti della madre (cui non voleva dare “disgusto”, dispiacere, nemmeno mentre stava abbandonando il mondo) Manolete visse soltanto un amore contrastato per non dire struggente, dall’esito incerto, che la cornata mortale di “Islero” impedì di conoscere.
Un amore chiamato Lupe Sino, al secolo Antoñita Bronchalo Lopesino (dal secondo cognome ricavò il nome d’arte) sfortunato personaggio oltretutto non ben trattato dalle dicerie del tempo. E pertanto meritevole di alcune precisazioni.
Lupe, alias Antoñita, non era messicana (in Messico avrebbe vissuto soltanto due importanti momenti della sua breve esistenza); più semplicemente, era nata nella cervantina Castilla la Mancha, a Fuentelaencina, un anonimo paese nella provincia di Guadalajara. Fu attrice di non eccelsa ma buona qualità in alcuni film; particolare di una certa importanza, era entrata nel mondo del cinema prima di conoscere Manolete, contrariamente alle attuali veline rese celebri da flirt con calciatori e gente dello spettacolo. Ma soprattutto non costituì quel genio del male che mamà Rodriguez e la cuadrilla del monstruo dipinsero senza scrupoli: picadores e banderilleros la chiamavano “La Serpiente”, mentre doña Angustias impedì che Lupe entrasse nella camera in cui il torero si stava spegnendo, per paura di un matrimonio in “articulo mortis”.
Coppia serena fra i “campesinos” della Mancha
Manuel e Antoñita si conobbero nel ’43 (presentati da Pastora Imperio, notissima star dello spettacolo) da Chicote (oggi Bar Museo) locale sulla madrilena Gran Via, reso celebre dalle cronache di Hemingway sulla Guerra Civile.
Nasceva un rapporto sentimentale intenso e profondo ma (siamo ai tempi della Spagna franchista, bacchettona e rigidamente legata alla morale cattolica) imperfetto, nel senso che le giuste nozze tardavano a profilarsi (forse non solo perché “mamma non voleva”). La coppia convisse comunque senza problemi, compiendo anche un paio di viaggi in Messico in occasione di altrettante “temporadas taurinas” e in Messico Lupe Sino tornò dopo la morte di Manolete, vi sposò un ricco avvocato di nome – strano ma vero – Manuel Rodriguez e fece infine ritorno a Madrid ove morì, prematuramente non meno che misteriosamente, nel 1959).
Manolete visse con Lupe momenti di serenità che il mondo della corrida e la severità della madre rendevano problematici. Il torero raggiungeva la “novia” nella tranquillità di Fuentelaencina, posteggiava la lussuosa, monumentale Hispano Suiza tra l’ammirato stupore degli umili “campesinos manchegos” e si divertiva un mondo a giocare alla “pelota al frontòn”, a carte, dopodiché “dominava” la tertulia, la chiacchierata, al bar del paese.
Manolete, il torero dal sorriso triste
Ma tanto ben di dio fu distrutto da “Islero”, alle 18 e 42 del 28 agosto 1947, a Linares. E se per Manolete fu la morte (a soli trent’anni d’età) minore ma anch’esso triste fu il dramma della sua amata. Soltanto vent’anni dopo, o poco più, in una Spagna più libera, moderna, godereccia, dai costumi sempre più disinvolti e disinibiti – il materialistico consumismo era ormai alle porte – l’incornata del Miura avrebbe trasformato Lupe Sino in una amata “Viuda de España” (vedova di Spagna).
Ma con Franco e la Chiesa imperanti, quella che oggidì sarebbe definita la sventurata (non meno che ammirata ed esemplare) compagna di una eccelsa figura del “toreo” altro non era che una concubina. Destinata, se non alla gogna, all’oblio.
Chi si sofferma davanti al grande monumento dedicato al torero di fronte alla cordobese chiesa di Santa Marina, avrà conferma del mito di Manuel Rodriguez Sanchez. Per certi versi paragonabile a quello di un grande sportivo suo contemporaneo, Fausto Coppi. Due esistenze leggendarie e tragiche. Basta vedere alcune loro foto. Coppi sorrideva raramente, Manolete mai.
O se mai si trattava di un sorriso, quanta tristezza.