Domenica 24 Novembre 2024 - Anno XXII

Tra laghi spariti e steppe spaziali

Kazakistan

Un oceano di erba dove si trova il meglio e il peggio dell’eredità lasciata dall’Unione Sovietica. Il Kazakistan è sì il ponte tra Europa e Cina, ma perché in una situazione di desolazione un europeo dovrebbe andarci?

Paesaggio erboso tra Europa e Cina
Paesaggio erboso tra Europa e Cina

Il gigante asiatico che collega l’Europa alla Cina ha ereditato dall’Urss il peggio e il meglio: la tragedia ambientale dell’Aral e il prestigioso poligono di Bajkonur, da dove partì Gagarin. Ma l’Aral è diventato davvero kazako, mentre il poligono è rimasto russo. In affitto. A destra c’è solo erba gialla, a sinistra solo erba gialla. Di fronte, invece, c’è erba giallo-bruna e dietro pure.

Sommessa domanda: ma se il Kazakistan è tutto così, perché mai un europeo dovrebbe viaggiare da queste parti? Bozza di risposta: perché in questo oceano d’erba è nascosto il meglio e il peggio che la defunta Urss ha lasciato in Asia. E a diciotto anni dal crollo dell’Unione Sovietica, proprio mentre gli Stati nati dalle sue costole stanno diventando maggiorenni, può essere curioso verificare come hanno speso gli anni dell’adolescenza.

Il cavallo di Frate Guglielmo meglio delle strade d’oggi

Kazakistan Astrahan
Astrahan

Partiamo in auto da Astrahan, gradevole ex fortezza zarista sul Volga, nel Sud della Russia. Superiamo in ferry due bracci del fiume e dopo mezza giornata siamo in terra kazaka. Che abbiamo passato il confine, lo dicono tre cose. La prima: siamo in ritardo di ore sulla tabella di marcia, perché le guardie ci hanno frugato fin nei calzini. La seconda: il mondo ha cambiato tinta, dal verde del Delta a un inedito binomio azzurro e ocra (di qua paludi, di là dune). La terza: l’asfalto, prima ben tenuto, ora ha più buche di un campo da golf. Rimbalziamo di buca in buca tutto il giorno, in un paesaggio via via più desolato, dove non si vede anima viva. Di anime morte, invece, ce ne devono essere parecchie, perché qua e là nella steppa spuntano antichi cimiteri, con monumentali tombe di pietra. Già ne parlava Guglielmo di Rubruck, un frate che settecentocinquant’anni fa passò di qui a cavallo: “Non vedemmo alcuna città né rovina di un qualche edificio dove fosse una città, ad eccezione delle tombe dei Comani in grandissima quantità”. I Comani erano un popolo tributario dei Mongoli.

Un Paese grande dall’Europa alla Cina

Kazakhstan

Ma in realtà questa non è l’unica risposta possibile. Un birdwatcher, infatti, potrebbe andare in Kazakistan per ammirare i volteggi delle aquile delle steppe, che qui sono più numerose dei piccioni a Venezia. Un poeta potrebbe andarci per calarsi nei panni di Giacomo Leopardi, che non si mosse mai da Recanati ma cantò le emozioni notturne dei pastori erranti per l’Asia. Un ingegnere minerario, infine, potrebbe andarci per vedere l’effetto che fa piantare un chiodo in terra e veder sgorgare più petrolio che dalle sabbie di Dubai. L’elenco dei possibili moventi di un “viaggio kazako” non finisce qui; ma prima di continuare è bene dare un’occhiata all’atlante. Il Kazakistan è il più grande fra i molti “stan” ex-sovietici: un gigante vasto nove volte l’Italia, che a est confina con la Cina e a ovest deborda in Europa, ma che malgrado ciò ha solo quindici milioni di abitanti, come il triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria. Insomma, un’enorme scatola vuota, dove c’è spazio per tutto: pecore e bombe atomiche, petrolio e frumento, poligoni spaziali e discariche per rifiuti tossici. Ai tempi dell’Urss, infatti, Mosca trovò un posto per tutto. Il frumento cresceva a nord. Gli esperimenti atomici si facevano a Semipalatinsk (oggi Semey) a est. Il petrolio si estraeva a Guryev (oggi Atyrau) a ovest. I satelliti partivano da Bajkonur, a sud. I rifiuti tossici, infine, si buttavano su un’isola del Lago d’Aral, a mezza via tra petrolio e satelliti. Oggi queste attività in parte continuano e in parte no; in ogni caso hanno lasciato tracce vistose. Ma per vedere e capire tutto ciò occorre andare in Kazakistan in auto o in treno, non in aereo.

Dal Caspio all’Aral, attraverso il nulla

Estrazione di petrolio
Estrazione di petrolio

Aggirando a nord il Caspio, a tarda sera arriviamo ad Atyrau, la capitale del petrolio kazako, città che come Istanbul sta in due continenti diversi: infatti in centro scorre l’Ural, il fiume che segna il confine tra Europa e Asia. Brutta non è, bella tanto meno, ma dopo un giorno di steppa l’ex-Guryev sembra Parigi, anche se nei sobborghi non c’è Versailles ma una selva di depositi di idrocarburi. Oggi a gestire quel ben di Dio non è più Mosca, ma varie compagnie occidentali, in prima fila la Tegizchevroil, astruso nome kazako della Chevron. Il clou del viaggio inizia ora. La prossima tappa sarà (anzi dovrebbe essere) Aralsk, ex-avamposto russo sul Lago d’Aral, un mare interno tagliato dal confine con l’Uzbekistan. Da Atyrau ci va (o dovrebbe andarci) una strada di quattrocentocinquanta chilometri, che però in realtà non esiste: anni fa era poco più che una pista e dopo l’indipendenza da Mosca è stata abbandonata a sé stessa; così la natura se l’è mangiata a brani. Adesso per andare ad Aralsk (che è a est) bisogna risalire a Oktyabrsk (a nord) e poi ripiegare a sud. Totale: mille e trecento chilometri, il triplo del dovuto.

Kazakistan tra petrolio, aquile e roditori

Astana, la capitale
Astana, la capitale

Il “tour” dura tre giorni e due notti, senza hotel intermedi. Le notti le passiamo in auto: una a Oktyabrsk, nel cortile di un garage, erede morale degli antichi caravanserragli per cammelli; l’altra sotto le stelle della steppa. Quanto ai giorni, se ne vanno in un’estenuante gimkana, non “sulla” strada ma “vicini” alla stessa. Infatti l’asfalto è impercorribile: pare uscito da un bombardamento, con buche-voragini profonde un metro. Perciò si procede a venti, trenta chilometri l’ora su piste tracciate nell’erba dal passaggio dei camion. La strada è solo un segnavia. Eppure quei tre giorni non sono inutili, perché fanno riflettere. Prima incontriamo solo pozzi solitari che succhiano petrolio con pompe automatiche; poi vediamo solo aquile, che volteggiano a caccia di roditori. La steppa dà a ognuno il suo: topi o idrocarburi. Ma i primi si sa dove vanno: nei nidi, per nutrire i pulcini. Dove finiscono i proventi del petrolio, invece, non si capisce: in cantieri stradali, non pare. Si dice che servano tutti per Astana, la nuova capitale voluta da Nursultan Nazarbayev, padre-padrone del Kazakistan indipendente.

Aral, un lago-mare in agonia

Nave in secca sul lago di Aral
Nave in secca sul lago di Aral

Ma eccoci finalmente ad Aralsk, città lacustre su un lago che non c’è più. Una volta questa città era un attivissimo porto, collegato a Mosca da un treno per il trasporto del pesce: in stazione c’è ancora un affresco del primo Novecento, con pescatori che offrono tinche e carpe a Lenin. Ma oggi il bagnasciuga è arretrato di trenta chilometri e i moli si affacciano su una distesa di fango secco costellata di rifiuti. Le carpe sono un ricordo, i pescatori pure; i loro battelli sono finiti in secca: a Dzhambul, un paese vicino, c’è una flotta arenata in piena steppa. Se il lago è sparito la colpa non è dell’incuria kazaka, ma di una follia russa. Per tutto il Novecento, infatti, le acque dei due immissari dell’Aral (Amu e Syr Darya) furono prelevate in dosi massicce per irrigare i campi di cotone del vicino Uzbekistan. Questa politica, iniziata dagli zar, fu portata all’eccesso in epoca tardo-comunista, nei primi anni Ottanta, sotto la guida di un genio dell’Accademia delle scienze, Grigorij Voropaev, che teorizzava: “All’Aral bisogna dare una serena morte”. Il lago, che già stava arretrando per cause naturali, finì in agonia. Oggi l’ex-mare interno è ridotto al dieci per cento di ciò che fu ed è spezzato in due settori, divisi da una piana di fango, polvere e sale. Non è tutto, perché un’isola (Vozrozdenija, oltre il confine uzbeko) in epoca sovietica fu adibita a discarica di rifiuti tossici militari: allora era irraggiungibile, ma poi si è saldata alla costa, con tutti i rischi del caso. Solo da poco si è cercato di sanare il disastro: l’Uzbekistan nel 2002 ha bonificato l’isola e il Kazakistan nel 2005 ha creato una diga che permetterà forse di recuperare un settore del lago, sigillandolo.

Verso Bajkonur

Yuri Gagarin partì da Bajkonur
Yuri Gagarin partì da Bajkonur

L’Aral è senz’altro il peggio che l’Urss ha lasciato in Kazakistan: rispetto al lago fantasma, il resto del Paese non può che essere meglio. Infatti dopo Aralsk migliora anche la strada: ora è un nastro di ottimo asfalto, che punta deciso a est-sud-est, parallelo al Syr Darya. E di tanto in tanto, annunciati da vistose insegne e da oasi di verde ben curato, appaiono addirittura degli autogrill alla kazaka, che sono poi spartani caffè dove si può entrare a mangiare cibi propri, ordinando solo da bere. Poi, dopo duecento chilometri o poco più, ecco Bajkonur. Il poligono spunta senza preavviso, fra la strada e il fiume; come i caffè-autogrill, è circondato da un’oasi verde, ma ha meno insegne: ad annunciarlo è una normale freccia, che dice di deviare a destra. Eppure, malgrado tanta modestia, questa oasi hi-tec assediata dalle steppe è un pilastro della storia: da qui furono lanciati i primi satelliti artificiali (Sputnik, 1957) e il primo cosmonauta (Yuri Gagarin, 1961). E non lontano da qui la città di Kyzyl-Orda, ignota ai più, fu per anni un crocevia di spie Usa, che controllavano i lanci sovietici.

Isola “spaziale” russa in terra kazaka

Il Cosmodromo kazako
Il Cosmodromo kazako

Oggi per curiosare nei segreti di Bajkonur non occorre essere agenti della Cia: il poligono è meta di visite guidate su prenotazione. E per dare un’occhiata ai razzi Soyuz montati sulle rampe non c’è neppure bisogno di prenotare, perché si vedono anche da lontano. Però per entrare nell’ordinata cittadina che circonda il poligono (nata in epoca sovietica per ospitare tecnici, cosmonauti e rispettive famiglie) serve un visto russo, perché anche dopo l’indipendenza del Kazakistan, Bajkonur è rimasta un’enclave sotto controllo di Mosca. In fondo era prevedibile, perché se il Lago d’Aral è il peggio lasciato dall’Urss, Bajkonur e senz’altro il meglio. E il Cremlino non poteva farselo scippare. Così, tra Russia e Kazakistan vige un accordo: la base resterà un’enclave di Mosca fino al 2026, dietro pagamento di un affitto; poi si vedrà. Noi però non resteremo qui diciassette anni per vedere l’epilogo della storia; il nostro viaggio kazako volge al termine: mancano solo settecentocinquanta chilometri, sostanzialmente senza storia, fino a Shimkent, da dove torneremo in Italia in aereo. Via Mosca, ovviamente.

Notizie utili

Arrivare

– Gli unici voli diretti Roma-Kazakistan sono della Rossiya Airlines ( www.rossiya-airlines.com). In alternativa si può andare via Mosca con Aeroflot ( italy.aeroflot.aero/it/) o via Francoforte con Lufthansa ( www.lufthansa.it). La compagnia kazaka Air Astana (www.airastana.com) ha collegamenti con Amsterdam, Londra, Francoforte e Istanbul.

Documenti – Passaporto valido almeno sei mesi; visto che si ottiene all’Ufficio consolare dell’Ambasciata kazaka (via Cassia 471, Roma; www.embkaz.it). Per guidare basta la patente italiana, ma per entrare con un veicolo straniero sono necessarie pratiche complicate.

Valuta – Tenghe (KZT) cambiato in ragione di 1 € = 200 KZT circa. Fuori dalle grandi città non fate conto sulle carte di credito.

Fuso orario – Rispetto all’Italia quattro o cinque ore in più, secondo le zone del Paese (ridotte a tre o quattro con l’ora legale).

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