Ho Chi Minh: “Il destino dell’uomo è una goccia di rugiada su un filo d’erba“.
Frase attribuita al bonzo Van Hanh, morto nell’anno 1018. L’accostamento semantico è duplice: da un lato lo splendore poetico della rugiada del mattino; dall’altro la precarietà incombente del suo dissolvimento, avendo come base di sostegno un semplice filo d’erba.
E in fatto di “destini” precari, il popolo vietnamita vanta esperienze tragiche e ripetute, attraverso i secoli. Ciò che non ha impedito la nascita, rafforzamento, consolidamento, di un’identità nazionale oggi più forte che mai.
Sulle rive del Sông Sái Gón
L’acqua, in questa parte di Vietnam dominata dall’impressionante delta del Mekong – il fiume dei fiumi che nasce nel lontano Tibet – è elemento diffuso e caratterizzante del panorama. Saigon, non direttamente bagnata dal Mekong, si adagia lungo la riva destra del fiume omonimo (Sông Sái Gón).
Di fatto il fiume è una grande autostrada acquatica – dalle acque perennemente terrose – che riceve e convoglia i numerosi traffici per una settantina di chilometri, verso il non lontano Mar Cinese meridionale. La corrente, com’è ovvio, fluisce verso la foce; ma quando la marea monta si ha la sensazione opposta e questo confonde non poco il senso d’orientamento.
Le rive ammucchiano colonie di fior di loro a formare isole galleggianti; non mancano lungo la sponda giovani pescatori cittadini, muniti di canna e retino. Il via vai fluviale è incessante. I traghetti che dalla riva di Ton Duc Thang – abbellita da spazi verdi, ristoranti, bar, terrazze fiorite, vivai di piante – vanno sulla sponda opposta carichi di gente e motorette, intersecano con abilità lo scorrere di chiatte, enormi barconi colmi di sabbia o cemento, navi container, natanti carichi di ogni tipo di merce. Volgendo lo sguardo verso nord, dove il fiume compie una grande curva virando a destra di chi guarda, si intravede la Saigon che sta crescendo; sono i quartieri del Distretto 2 e, ancora più a nord, oltre un ampio meandro del fiume, quelli del Distretto di Thu Duc.
La Saigon dell’immediato futuro
Qui soprattutto si sviluppa la nuova Saigon. Un canale, anch’esso vasto, mostra come meglio non potrebbe le realtà di una trasformazione edilizia che ha dell’incredibile.
Il nuovo che avanza uccide il vecchio che sopravvive ma che è ineluttabilmente destinato a scomparire. Scampoli di canale sono ancora occupati, sino a bordo acqua, da fatiscenti casette attaccate le une alle altre, molte delle quali edificate su palafitte; alcune sono a un solo piano, altre un po’ più alte e non di rado messe di sghimbescio rispetto all’ipotetica linea di allineamento fronte fiume; insomma, una perfetta anarchia edilizia.
L’acqua, tutt’attorno, è una discarica a cielo aperto: vegetazione marcia, tronchi, rifiuti di ogni genere si addensano sulle rive e le penetrano insinuandosi tra le abitazioni: è la Saigon che muore. In altri punti della riva, le casette non esistono più. Un’enorme massicciata in pietra digradante fa da sponda e sopra, a una certa distanza, si ergono i nuovi edifici di dieci-dodici piani, che ospiteranno una popolazione in vertiginosa crescita. Gli abitanti “ufficiali” di Saigon vengono valutati sui sette-otto milioni; ma un conteggio preciso è pressoché impossibile. Sono molti, molti di più; e il flusso immigratorio dalle campagne continua ad alimentarlo. La zona del canale a nord è in fase di avanzata edificazione, ma in ogni altra parte periferica della città i panorami sono identici.
Ho Chi Minh Città in perenne “movimento”
Saigon (molto meglio di Ho Chi Minh City) come dire: un esercito di moto e motorette in perenne movimento; quattro milioni e mezzo di veicoli a motore, per sette milioni di abitanti. Una gigantesca “marmellata” scoppiettante che sfreccia incurante del sole, della pioggia, delle auto e dei perdoni. Adrenalina pura? Attraversare un’arteria cittadina (sulle strisce pedonali) sperando di farcela!
La motorizzazione massiccia, con il frastuono che ne deriva, ha letteralmente “preso” le vene portanti della città. Le auto sono molte, si capisce, non pochi i Suv e quelle di grossa cilindrata, segno di un benessere sicuramente diseguale, ma diffuso.
Niente a che vedere, nel raffronto, con quello delle moto, dei motorini, di ogni “taglia” e marca. Uno degli spettacoli più affascinanti della città è quello di piazzarsi sul marciapiede in prossimità di un semaforo, aspettando che arrivi il verde: una valanga vera e propria di veicoli a motore su due ruote parte allora compatta e velocissima, con i motociclisti che si disputano – gomito a gomito – i centimetri di spazio per poter sfrecciare prima di altri, inseguiti da una muta di uomini e donne, muniti di caschi “seri” e di caschi improvvisati, ugualmente intenzionati a non farsi distanziare troppo in previsione della successiva sosta semaforica.
Qualche problema, di tanto in tanto, arriva dalle moto che, oltre al guidatore e all’eventuale ospite, imbarcano anche cassette colme di merci varie, ammonticchiate una sull’altra; o addirittura involucri lunghi e stretti posti di traverso dietro chi guida; pericolosi di sicuro, ma ottimi per fendere in maniera efficace il traffico circostante. Davvero uno spettacolo affascinante è quello della massa semovente motorizzata che scivola sotto uno dei frequenti e violenti acquazzoni che riempiono l’asfalto di milioni di spruzzi rimbalzanti, a loro volta destinati a confondersi con i mille rivoli d’acqua che provengono dall’impatto con i caschi e i corpi dei motociclisti. Nessuno si ferma; loro, alla pioggia, sono abituati. (1. Continua. La seconda parte mercoledì 4 agosto)
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