Le gite nell’Uzbekistan prevedono un programma-itinerario pressoché identico con una durata che va dagli 8 ai 10 giorni. Si arriva a Tashkent dopo più di 6 ore di volo dal Belpaese e visitata la capitale uzbeka si vola (un’ora e mezza, levataccia: quasi una notte in bianco per la trasferta del mattino) a Urgench raggiungendo Khiva dopo una trentina di chilometri tra campi di cotone e risaie (scherzi della vita per il cronista, notare impensabili scorci di Lomellina da queste parti, quasi quasi ti viene da chiedere se coltivano l’Arborio il Vialone Nano o il Carnaroli, ancorché, si sa, il riso sia d’origine asiatica).
Un “Khanato” disinvolto
Tra Tashkent a Khiva (nell’Uzbekistan nordoccidentale, verso il quasi ‘fu’ lago o mare di Aral) non intercorrono solo l’ora e mezza di volo e un clima più deciso. La differenza la fa soprattutto la storia. Perché quello di Khiva fu un Khanato (fatto scomparire nel 1873 dai già citati appetiti dell’impero zarista) di tutto rispetto. Un ministato (islamico, sorto nel ‘500) invero chiaccherabile: defilato sulla Via della Seta, prosperava infatti con il poco etico commercio di schiavi, portati in carovane da mercanti delle tribù turkmene e kazake. Ma i predoni premevano da ogni dove e agli inizi del ‘700 il Khan aveva offerto sottomissione a Pietro il Grande, salvo poi ripensarci e accoppare i 4000 soldati mandati dallo zar (risparmiò solo quelli incaricati di riportare in Russia la ferale notizia). Divenuto vassallo dell’impero nel 1873 il Khanato di Khiva tenne duro fino agli anni ’20 del secolo scorso, quando fu abolito da un generale bolscevico che vi fondò una repubblica popolare.
Appetita dagli Zar, conquistata dai Soviet
Visitare Tashkent può intrigare, non tanto chi è arrivato dopo aver letto le Mille e Una Notte e il Milione (costoro godranno molto più a Bukhara e Samarcanda, ripercorrendo parte del glorioso itinerario di Marco Polo) quanto coloro al corrente di storie meno mitiche e più recenti. Poco nota fino a metà del XIX secolo, l’attuale capitale uzbeka acquistò sempre maggior importanza grazie alle mire espansionistiche dell’impero zarista nell’Asia centrale (come si sa, all’Orso Russo stavano strette le pur sconfinate pianure tra Mosca, gli Urali e il mar Caspio, e sarebbe volentieri arrivato all’oceano Indiano se non si fosse messo di mezzo, intrigando in Afghanistan, il British Empire, in quel casino di guerre e diplomazia che fu chiamato il Grande Gioco).
Scalzato lo Zar (si fa per dire, Lenin andava mica tanto per il sottile – qualche pallottola in uno scantinato e addio dinastia Romanov – per non parlare di Stalin che riuscì a fare ancor meglio) i Soviet proclamarono la repubblica dell’Uzbekistan stabilendo la capitale a Tashkent (dal 1927, sostituì Samarcanda).
Khiva, città museo
Per i non superesperti di viaggi nell’Asia centrale, Khiva costituisce una piacevolissima sorpresa affascinando per la sua bellezza, ancorché corra il rischio di apparire quello che i viaggiatori yankees definiscono ‘mickey mouse’ (leggasi troppo ‘perfettina’ o un filino finta, imperfezione peraltro riscontrabile in tante altre località storico-artistiche del pianeta in seguito a una eccessiva ‘ricostruzione scenica’ e/o alla presenza di una massiccia ‘offerta commerciale’, souvenirs e quant’altro). Meno criticamente, Khiva può menare il vanto di essersi assai ben conservata nei secoli dopodiché, nella seconda metà di quello scorso, è stata assai ben trasformata dagli archeologi sovietici in una splendida città-museo. Aggirarsi in Ichon Qala, la città vecchia, provoca un vero piacere in un dedalo di moschee, Madrasse, tombe, palazzi, harem, caravan sarai. Se poi il tempo è bello, che goduria vedere la luce dell’alba illuminare il minareto Juma (dopo aver fotografato la luna sulla Ota Darvoza, la Porta del Padre).
La “Grandeur” di Tashkent
La città contiene pertanto quanto, di buono e di cattivo, fu progettato (i famosi Piani Quinquennali) e realizzato in una settantina d’anni di Socialismo Reale (o se si preferisce, dittatura del Proletariato). Lunghissimi viali generosamente alberati, con corsie per auto ancor più spaziose (inversamente proporzionali a quello che, almeno fino vent’anni fa, all’avvento di una sorta di, vabbè, libero mercato, poteva definirsi un traffico scarso) danno a Tashkent un aspetto di Grandeur, culminante nella infinita Piazza dell’Indipendenza. Voluta dai tovarich d’antan e dall’attuale presidente (Islam Karimov, secondo alcuni eccessivamente legato al potere, ma così fan tutti, o quasi) in spazi a dir poco inquietanti e comunque enormi: dieci ettari di verde trapuntato da tanti monumenti, palazzi per concerti e biblioteche, passeggiate sotto slanciate sculture di argentee cicogne, cenotafi e beninteso una Casa Bianca. Intorno alla mega Piazza, grandi edifici più o meno casermoni (quegli stessi che puoi vedere a Mosca o Bucarest piuttosto che a Kiev o Varsavia) si aggiungono a nuove costruzioni “occidentali” (un tempo si sarebbe detto “capitaliste”) lardellate di negozi contenenti costose mutande e ancor più costosi jeans dei nostri modaioli, i soliti Rolex e quei fast food che dopo aver distrutto il mondo libero per il mostruoso contenuto di calorie, adesso fanno danno dove alle calorie ci pensa già la vodka.
Come ovvio, un po’ di storia (quindi monumenti non recenti, luoghi di culto più o meno antichi) la possiede anche Tashkent: ecco pertanto un accettabile giro della città, mete la Madrassa (scuola islamica con annessa moschea, nella capitale dell’Uzbekistan
il 65% è mussulmano, il 30% è russo ortodosso, il resto ‘a scelta’) di Kulkedash e a Khast Imom, un centro religioso che su un ampio spazio contiene moschee, un museo e una biblioteca (e il Corano di Osman, VII secolo, va davvero ammirato).