Libro d’esordio di Javier Yanes, Il Signore delle Pianure è una storia che sta a metà tra il romanzo e la letteratura di viaggio… mischiati con equilibrio e sensibilità paesaggi struggenti e personaggi pieni di fascino, nella magica cornice del Kenya.
«Mio nonno mi raccontava le storie dell’Africa…» Curro Mencía aveva dieci anni quando ascoltava rapito i racconti del vecchio Hamish, pieni di vegetazione esotica e di esploratori, di cieli sconfinati e di savane, di leoni uccisi e trofei di caccia. La nonna, l’adorabile e indomabile Uke, era morta da poco, e Hamish, uno scozzese dai capelli rossi scomparso negli immensi spazi africani dopo averla messa incinta, era inaspettatamente tornato per renderle omaggio. Nelle poche settimane in cui si era trattenuto prima di scomparire nuovamente nel nulla, quel nonno che non aveva mai conosciuto era riuscito a instillare in Curro, attraverso i suoi affascinanti racconti, un’insopprimibile e misteriosa nostalgia, chiamata mal d’Africa.
Quando, molti anni dopo, viene messa in vendita la residenza nei pressi di Madrid che da generazioni appartiene alla sua famiglia e che insieme a essa sta andando in rovina, in Curro si riaccendono i ricordi sopiti. Perché quella è ben più di una casa, è un universo intero che racchiude i ricordi di un’infanzia piena di avventure, di affetti e di mistero: è lì che Curro ha conosciuto fugacemente il suo bizzarro nonno ed è da lì che intende ripartire alla ricerca di indizi che glielo restituiscano. Un viaggio sulle tracce delle proprie radici che lo porterà fin nel cuore del Kenya, all’appuntamento da troppo tempo rimandato con il signore delle pianure…
“Mio nonno mi raccontava le storie dell’Africa. Ne ricordo una, di una fattoria che sorgeva proprio sulla linea dell’equatore. Un giorno il suo padrone, un colono inglese, decise che sarebbe stata una buona idea allevare struzzi, visto che a Londra facevano furore i cappellini da donna con le piume. Riunì i suoi uomini, costruirono uno steccato e cominciarono a dare la caccia al loro primo esemplare. Ben presto adocchiarono un maschio splendido, grande come una gru di porto e con un piumaggio da cancelliere. Lo legarono stretto e lo trascinarono dentro al recinto, mentre l’animale, infuriato, menava calci a più non posso nella luce del tramonto africano. Il colono pensò che forse chiudendogli gli occhi, come si fa con i falchi e i pappagalli, l’uccello si sarebbe calmato. In fondo, lo struzzo è pur sempre un uccello…”