Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Bangalore, fra miseria, high-tech e impegno civile

“Glittering” India. Fra vacche magre, strade polverose, bimbi vestiti di poveri tessuti dai cento colori. Secoli di distanza a dividere l’umanità dagli “splendori” moderni della più tecnologica fra le città indiane

Bangalore, sede dell'associazione CWC, Concerned for Working Children
Bangalore, sede dell’associazione CWC, Concerned for Working Children

Prodigi della tecnologia moderna. Poche ore fa dormivo in un’isola della laguna veneziana, adesso sto seduto ad oltre diecimila metri d’altezza, dentro una scatola d’acciaio con le ali. Destinazione India meridionale: Bangalore, la capitale dell’high-tech indiano.
Arrivo tardi. Mi hanno detto che per molte persone l’impatto con l’India è fortissimo. Io ho i miei demoni personali. Mi fumo nervosamente una sigaretta, quasi a chiedermi il perché sia venuto fin qui. La ragione si chiama “CWC, The Concerned for Working Children”, associazione locale che supporta il movimento locale (Bhima Shanga) dei “Bambini e Adolescenti Lavoratori”.
Sono ancora un po’ stranito. All’inizio resto sempre molto disorientato dai posti nuovi. Perfino nell’incantevole e “italianissimo” Salento, quando andai in vacanza da amici, passai i primi giorni un po’ estraniato e silenzioso.

Nelle periferie di Bangalore

Bangalore Mahatma Gandhi Road
Mahatma Gandhi Road

Insieme al mio compagno di viaggio, saliamo su un risciò motorizzato e attraversiamo la notte.  I gestori della locanda ci accolgono quasi in festa; un ragazzo addirittura si pianta amichevole in camera nostra senza troppa voglia di andarsene. Alla fine riusciamo a fargli capire che la stanchezza e il sonno ci reclamano.  Ho fame. Assaggio una merendina portata da casa. Mentre mastico quel provvisorio sapore europeo, annaspo nei pensieri e alla fine sprofondo nei meandri dei miei primi sogni indiani. Finalmente, il risveglio. La curiosità impone la sua legge. Siamo subito fuori. La via in cui è situato il mini-hotel è sporca e piena di buche. È una delle tante parallele della Mahatma Gandhi Road, uno grosso stradone super-trafficato; poco distante da noi ci sono persone che scaricano casse. Non sembrano gradire troppo i flash del mio amico. Saldiamo e andiamo a cercare la meta dei nostri studi; da quanto riusciamo a capire, non è vicinissima, lo stesso guidatore è incerto.  Il percorso cambia. Dai negozi di chiaro stampo occidentale e annesse botteghe per turisti, si passa a strade secondarie dove l’asfalto lascia posto alla terra. Le persone sembrano subire la stessa metamorfosi. Dopo venti, venticinque minuti abbondanti, l’uomo si ferma e inizia a parlare con dei colleghi; telefona addirittura.  Avrò capito giusto? Sarò nella città giusta? Poi riparte e finalmente ci siamo. Una famiglia che vive accanto alla sede del “CWC” sapeva del nostro arrivo ma i responsabili dell’associazione li troveremo lunedì. In qualche modo ci sistemano in una pensione in città. Perché tornare nel traffico? Già che siamo lì, iniziamo la “perlustrazione”.

Vite “provvisorie”

Bangalore Insieme ai bambini indiani nella periferia di Bangalore
Insieme ai bambini indiani nella periferia di Bangalore

Invidio il mio amico. È subito a suo agio. Armato di macchina fotografica, si scatena e subito diventa l’idolo dei tantissimi bambini; lo abbandono per qualche minuto mentre ne è attorniato. In qualche istante d’ombra solitaria, nel tachimetro dei miei pensieri, abbozzo qualcosa. Gigantografia di povertà vivida e senza controllo. Strade impolverate di espressioni; mille case nomadi: è questo il domani dei miei ieri? Gonfio gli occhi e irrigidisco i muscoli. La tempesta ha di meglio da fare. Il sole è caldo, umido. Si prosegue alla cieca nella maratona fra le baraccopoli.  Ci siamo confusi (si fa per dire) in mezzo alle stradine di terra, a minuscole case di pietra, di paglia. Catapecchie intervallate da tendopoli provvisorie fatte di sacchi della spazzatura, di stracci. I bambini arrivano a frotte. Sono i colori caldi ad occupare principalmente i loro vestitini. Rosso, viola-rosato, gialli-aranciati. In mezzo a tutto ciò, vacche ben lontane dalle loro colleghe alpine. Queste sono di un magro sacro; pascolano nella spazzatura, così come nelle strade cittadine.

Farsi fotografare per esistere

Bangalore Donne sorridenti
Donne sorridenti

Si continua con le foto. Sorridono tutti e si chiamano a vicenda; non ti chiedono nulla. C’è chi è povero ed è arrabbiato, ruba e ammazza. Loro, no. Mi colpisce che i fratellini o sorelline minori non siano mai trascurati da quelli più grandi. Da noi il piccolo (così come l’anziano) si sente dire che non capisce niente, che è un peso.
I più piccini non giocano mai da soli. Nel peregrinare ogni tanto s’intravede qualche costruzione islamica con tanto di mezza luna sul tetto. Un musulmano dalla lunga barba ci chiama per farsi fotografare col figlio. Poi succede che una ragazzina, con qualche evidente problema mentale, quasi impazzisce di gioia all’idea di essere immortalata. Ciò che mi “tocca” di lei è il non aver occupato l’obbiettivo da sola; prima di mettersi in posa, ha chiamato tutti i parenti e gli amici, mostrando un senso di comunità che da noi, parlando d’Italia, è presente forse solo nel meridione. L’individualità, in una delle tante zone povere di Bangalore, non sembra coabitare. Forse per queste persone, che vivono ai margini della società, farsi fotografare è come un desiderio di esistere.

Fra smog e high-tech

Bangalore Si vaga per Bangalore
Si vaga per Bangalore

Scende la notte anche qui. L’onda umana fa dell’oscurità un villaggio splendente che condensa in primavere tutta la nostra forza sul ciglio senza bordi inclinati. Nei giorni successivi ci alterniamo fra la sede del “CWC”, dove parliamo con i responsabili e ci documentiamo con materiale cartaceo e le testimonianze sul campo. Ci dedichiamo pure al consueto fascino del vagare. La gente continua a lavorare. Vedo cantieri aperti, radici di grattacieli, internet-point dappertutto. Bangalore è questo: un grosso cantiere aperto impregnato d’aria calda, piena di smog; tubi di scappamento senza il minimo filtro. Intere famiglie (senza casco) di quattro-cinque persone a cavallo di sgangherate motociclette. C’è anche altro. Giganteschi giardini pubblici. Banche dalla struttura massiccia con i loro “emissari” bancomat sparsi ovunque. Poco più in là, edifici sacri dell’autentica cultura indiana che si contendono il primato locale con gli specchi d’altre costruzioni.  Restiamo a Bangalore qualche giorno in più rispetto al programma.

Villaggi-Scuola. Per un avvenire migliore

Bangalore Kundapur, il centro Namma Bhoomi
Kundapur, il centro Namma Bhoomi

La febbre mi lascia a pezzi e sfiancato per almeno quattro albe e altrettanti tramonti. Finalmente riusciamo a partire per la seconda meta: Kundapur, sulla costa occidentale indiana, sul Mare Arabico, a sole nove ore di macchina.  Lì ci aspetta un villaggio dove bambini e adolescenti frequentano corsi per imparare un lavoro. Un giorno saranno falegnami, sarti, tecnici elettronici. E non verranno sfruttati. Dopo le prime ore di viaggio, chiedo se posso inserire qualche cassetta nell’autoradio e il guidatore, gentilmente, acconsente. Così mi ritrovo a vedere questi villaggi, queste strade (e pure un grosso camion che si è ribaltato) questa nazione, mentre ascolto certe canzoni che hanno “segnato” momenti importanti della mia vita.  Le “madeleine proustiane” sono briciole se confrontate con i frammenti di universo che si stanno mescolando nella mia mente. Il rock profondo e sincero dei Pearl Jam, le dolci melodie della nostrana Elisa, le atmosfere fiabesche di Vinicio Capossela e quelle goticheggianti degli Evanescence; perfino una spruzzata dei Bon Jovi e per chiudere, l’eco delle impareggiabili lezioni di volo dei Pink Floyd.

Banane contro l’arsura

Bangalore Villaggio di Alur, a tavola si mangia su piatti di foglie di banana
Villaggio di Alur, a tavola si mangia su piatti di foglie di banana

Lungo la strada il paesaggio si concede molti intervalli: verde pisello, selciato rosso. Isolotti di terra che scompaiono a seconda dell’alta marea e piccole imbarcazioni sulla riva. I templi spuntano dalla vegetazione, fari fedeli controllano l’umano operato. Il clima non è nemmeno confrontabile con quello di Bangalore. Qui si respira almeno. Ma l’umidità è quasi il doppio. Alle sette del mattino siamo già in penuria idrica. Per recuperare qualche energia, facciamo incetta di mini-banane. Nel vicino villaggio di Alur, in visita a una scuola, ci invitano a ristorarci insieme a loro. Mangiamo con le mani sulle grosse foglie di banana. A noi portano anche delle forchette. Condividiamo il pasto con almeno un centinaio di persone sotto veli arancione, disposti ovunque per proteggersi dal sole. Il pranzo migliore da quando sono in India, in particolare un dolce (un preparato con petali di rose) davvero squisito.

Chennai, meta di un nuovo ritorno

Bangalore L'alba il giorno della partenza da Kundapur
L’alba il giorno della partenza da Kundapur

Era prevista un’altra tappa, a Chennai (Madras) per incontrare il “Theatre of the Oppressed”. Un altro violento attacco di febbre mi mette definitivamente ko.  Il viaggio termina qui, col sapore dell’acqua calda e limone come colazione, pranzo e cena. Cerco le indicazioni per trovare la mia valigia. I fiori secchi sul tappeto si alternano con le fotografie spezzettate da linee bianche e mattoni. Una quieta sensazione: era quello che da tempo desideravo mi succedesse.  A ridosso della partenza, nell’aria condizionata del taxi, le gambe mi si accavallano nervosamente. Come se cercassi un ulteriore riparo da chissà cosa.  Questo cielo che sto per abbandonare mi si presenta come un soffitto tutto tappezzato di coperte e amplificatori. Trovo rassicurante e veritiera l’immagine di un uomo scalzo fuori dal mio scalo. Probabilmente sta pensando a ciò che ha dovuto abbandonare per un po’ di tempo.  D’ora in poi, ci sarà sempre un’ombra più accentuata del piede, in avanti.

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