Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Parigi-Roubaix: l’Inferno del Nord

Nord Pas de Calais

Gerard, contadino di Moulin de Vertain, dice che la primavera arriva con i ciclisti e viaggia sul pavé. Parte dalla lontana Parigi e arriva fin quassù: con il sole, il vento, la pioggia, la polvere o il fango. E come una farfalla, dura poco

Lille
Lille

La primavera arriva senza avvisare nel Nord-Pas de Calais, un lembo di Francia che profuma di vento e di terra, un ponte largo e lucente fra Parigi, il Mare del Nord e le Fiandre. Le spiagge bianche, il salotto a cielo aperto della vivace Lille, ma anche i grandi spazi di campagne e i mattoni rossi di antiche fattorie e stanche fabbriche. E poi boschi, stagni, piccoli villaggi e stradine di campagna. E’ primavera quando il plotone colorato vola sul terribile pavé. In gergo ciclistico la Parigi-Roubaix è l’inferno del nord. In molti pensano che si chiami “inferno” per le condizioni difficili imposte da un percorso per pedalatori forti e potenti. In realtà l’inferno del nord è lo scenario che apparve agli organizzatori della gara nell’immediato dopoguerra durante un sopralluogo: lande deserte, desolate, devastate dalla follia bellica.

Uno scenario unico
Paris-Roubaix il terribile pavé
Paris-Roubaix il il terribile pavé

Il percorso della Parigi-Roubaix è un serpente di pietra che transita in villaggi e campagne di una provincia certamente meno dipinta della Provenza o della Borgogna.
I fasti della Loira e l’atmosfera di Parigi sono lontani anni luce. Ma è un viaggio vero. Le stradine di pavé sono solitarie vie di campagna frequentate da trattori, carretti e bimbi infangati che corrono con la cartella sulle spalle. Per trecentosessantaquattro giorni all’anno quei sassi sporgenti vengono scalfiti dalle imprecazioni di mamme e contadini che pregano i santi protettori di sospensioni, coppe dell’olio e pneumatici sfibrati.
La seconda domenica di aprile, ogni anno, quelle pietre ospitano pagine di ciclismo antico. Sì, perché la Parigi-Roubaix è una gara unica. Tutta in pianura, durissima per la lunghezza e le condizioni ambientali sempre imprevedibili. A Roubaix arrivano solo i campioni capaci di elaborare la sofferenza e pochi eletti hanno l’onore di vincere accolti dal boato del pubblico nello storico velodromo.
L’ideale è programmare il viaggio in concomitanza con la gara per vivere la festa, l’emozione, lo spettacolo di un grande evento sportivo e l’impressionante metamorfosi di questi luoghi come avviene a teatro.
Primo atto: la vigilia e l’attesa; secondo atto: la gara; terzo atto: il pavé torna solitario e muto. La Parigi-Roubaix è una gara ma c’è qualcosa di più. L’evento sportivo ha un valore relativo rispetto al coinvolgimento umano e alla capacità che ha di raccontare le radici di un territorio e del suo ultimo secolo di storia.

Parigi-Roubaix la vigilia
Wallers in attesa della corsa
Wallers in attesa della corsa

Wallers è un villaggio di minatori ed è famoso solo perché si trova nei pressi della foresta di Aremberg, luogo mitico. Il giorno della vigilia non c’è particolare fermento. Al Café della Paix, Didi, oste bonario, accoglie gli avventori con la tradizionale e conviviale stretta di mano. I camperisti, tutti dotati di televisioni e paraboliche con mogli pazienti e servizievoli, prendono possesso degli spazi strategici.
Una sorta di sabato del villaggio. Sole e pioggia fanno le prove per non perdere l’appuntamento di domani quando all’imbocco della foresta si apriranno le porte dell’inferno. Ma al Café de la Paix il pomeriggio scorre lento, abituale, rilassato tra le solite chiacchiere della vigilia e sommessa vitalità di avventori che fanno rotolare pigramente le biglie del biliardo. La Voix de Nord si tuffa nell’evento: analisi, previsioni e amarcord; ma Parigi è lontana.
A Cysoing tutt’altra atmosfera. Elettricità nell’aria frizzante della vigilia. Il villaggio e un cronista da festival paesano sfidano il freddo e spilli di pioggia che pungono la piazza.

LEGGI ANCHE  Da Tallinn a Narva. Viaggio in Estonia tra castelli e manieri

L’attesa
Parigi-Roubaix Inizia la sfida
Inizia la sfida

All’alba piove e fa freddo. Aria gelida, tempo da Roubaix dopo due settimane di sole e polvere, puntuale protagonista arriva la pioggia.
Nel grande nord del ciclismo non c’è inferno senz’acqua. Il pavé è lucido, scuro, viscido e trasuda fango. Auto, camper, tende, ombrelli, bambini e nonni, intere famiglie prendono posizione lungo i punti strategici del percorso. Gli animi sono giocosi, l’atmosfera è ludica e per esorcizzare il freddo, si danza. Ballate popolari d’altri tempi si fondono con suoni “techno”. Spruzzi di pioggia e raffiche di vento stendono bandiere. Le più grandi, le più visibili sono gialle con il leone delle Fiandre.
Sono in tanti, vengono dal Belgio che è a due passi da qui.

La gara
Il pavé della foresta Aremberg
Il pavé della foresta Aremberg

Aremberg. In trentamila si accalcano lungo il pavé della foresta. Cos’è Aremberg?
E’ una ferita che taglia la foresta dritta, decisa, netta come una lama di coltello. Una lama che spesso si accanisce sulle gambe, i muscoli, le ossa di fortissimi routiers. Generalmente è un paradiso, una tranquilla passeggiata, un’oasi di pace a due passi da un magnifico stagno. Il giorno della Parigi-Roubaix è la porta dell’inferno.
Le transenne comprimono la gente tra il pavé e la foresta, lasciando il budello di pietra alle ruote dei routiers. E’ qui che la gara entra nel vivo. Il plotone verrà risucchiato dalle forze primordiali della foresta; il gruppo arriva compatto ma dovrà infilarsi nel budello in fila, uno per volta.
Aremberg è un tunnel, una sorta di canale vaginale che può portarti verso la vita ma può inghiottirti verso la morte; una strettoia dove si paga il biglietto d’ingresso. Rimanere davanti al gruppo, uscirne indenni, significa poter cominciare a giocarsi le proprie carte e accarezzare la speranza di arrivare al velodromo. Affogare nella bottiglia di Aremberg significa terminare qui la cavalcata verso la gloria. Parigi è sempre più lontana. Ma anche il velodromo sembra lontano una vita.

LEGGI ANCHE  Week-end in rosa in Valle d'Aosta

Parigi-Roubaix, soffrire pedalando
Routiers coperti di fango
Routiers coperti di fango

Cori, canti, festeggiamenti. A un tratto l’onda del silenzio sembra fermare il tempo, fotografare l’attesa, trattenere i respiri.
Ecco i primi routiers. Bagnati, infangati, senza volto, occhi sgranati e bocca in cerca di ossigeno. Passano veloci, volano sul pavé. Inseguono il vento della vittoria. Passano in fila ma il tempo scandisce i primi vuoti nel plotone. E dopo i vuoti arrivano routiers più appesantiti, sofferenti, stritolati dalle vibrazioni: sul punto di gettare la spugna. Non pochi, simboli delle nuove generazioni, troppo giovani per resistere ai ripetuti schiaffi del pavé, mettono il piede a terra.
Sono ballerini sporchi di fango con la testa vuota e i muscoli intontiti. Per loro la Roubaix non è mai cominciata. L’inferno è qui; il velodromo, come il paradiso, può attendere.

L'inferno del pavé
L’inferno del pavé

Carrefour de l’Arbre: quindici chilometri dall’arrivo; è l’ultimo, difficile ostacolo prima di entrare a Roubaix. A questo punto sono rimasti in pochi a volare verso la meta. Il pavé, qui duro, sconnesso e imprevedibile, sfibra i muscoli, offusca la mente, spegne i riflessi.
Vélodrome: grande partecipazione e ultime fasi della gara su uno schermo gigante. L’incalzante voce del cronista echeggia nello stadio accompagnando il volo dell’alfiere fiammingo e lo schermo, tunnel catodico, materializza i gesti di un uomo stanco e provato che pedala lungo la rassicurante traiettoria del glorioso velodromo.
Come un’alchimia il pavé si scioglie e regala alle ruote della bicicletta le carezze della vittoria.
E poi arrivano gli altri. Alla spicciolata, una manciata di sopravvissuti del gruppone che partiva da Compiegne, già lontana da Parigi. Il fango ricopre volti esausti, gambe filiformi, maglie ormai anonime. Tutti meritano l’applauso convinto del Vélodrome.

E dopo?
Peter van Petegen vince la 101ª gara (13 aprile 2003)
Peter van Petegen vince la 101ª gara (13 aprile 2003)

Il fango si asciuga sui volti dei routiers che non fuggono verso le docce.
Per qualche attimo sprofondano nell’astrazione, innamorati di quella maschera, una temporanea carta d’identità per prolungare l’effetto catartico della sofferenza, proteggere la purezza del vuoto interiore, regalare fisicità alla memoria e provare una sorta di compiacimento attraverso gli occhi degli altri. E Parigi è lontanissima.
La provincia francese torna alla sua sobria normalità. Al Café de la Paix, Didi stringe calorosamente la mano ad amici e sconosciuti, la foresta di Aremberg e il Carrefour de l’Arbre tornano anonime strade di campagna. E il pavé torna alle gomme dei trattori e alle ruote leggere dei routiers di ogni giorno, gente che non conosce la salita ma sa flirtare col vento, il gelo e i sussulti di pietra.
Moulin de Vertain. Il mulino, cinquecento metri di pavé; Gerard e il suo amico seduti sul limitare del pavé leggono i resoconti della gara. Le pale del mulino sono ferme e osservano l’ultimo sole. Una mongolfiera naviga nel tramonto. Il TGV sfreccia nella pianura sfidando il vento e accorciando il tempo verso la lontana Parigi.

LEGGI ANCHE  Un'estate in Valsugana

Breve storia di una classicissima
Johan Museeuw
Johan Museeuw

La prima edizione risale al lontano 1896. Erano i tempi del ciclismo eroico, degli antichi pionieri che scoprivano il gusto di lunghe maratone a pedali. La Roubaix è sinonimo di pavé. Una corsa unica, praticamente senza dislivelli, ma durissima per le sezioni di pavimentazione con i famosi cubetti di pietra, davvero poco confortevoli per i ciclisti.
Il primo vincitore fu Josef Fischer, tedesco, che impiegò nove ore e diciassette minuti per completare il percorso di duecentottanta chilometri. L’anno dopo fu la volta di Maurice Garin, lo spazzacamino francese famoso per aver vinto nel 1903 la prima edizione del Tour de France: per lui dieci ore e quarantatré minuti alla media di ventisei chilometri e mezzo all’ora.
Negli anni il ciclismo si è evoluto, tante cose sono cambiate, ma questa gara rimane una classica delle classiche e ancora oggi evoca imprese da ciclismo d’altri tempi.
Non è una corsa per ciclisti agili e leggeri, ma per super-passisti veloci, potenti e resistenti. In particolar modo lega il suo nome a ciclisti indimenticati, fortissimi, che hanno espresso sul pavé il meglio della loro tecnica, ma soprattutto del loro carattere e della loro capacità di soffrire.
Per arrivare a tempi più recenti, il grandissimo Merckx vincitore di tre edizioni (‘68, ‘70, ‘73); Moser, anche lui vincitore di tre edizioni da record perché inanellate consecutivamente (‘78, ‘79, ‘80) e Messieur-Roubaix, Roger De Vlaeminck che rimane il re della competizione con ben quattro sigilli (‘72, ‘74, ‘75, ‘77). Tra i grandi anche Gimondi e Hinault.
Il francese dimostrò proprio in questa gara di essere un “grande”. Non partecipava mai a questa corsa; anzi, la odiava. Ha sempre pubblicamente dichiarato che si tratta di una gara insulsa, priva di significato tecnico. Tralasciando la questione di merito, resta il fatto che una sola volta vi ha partecipato, nel 1981, affermando la sua indiscutibile forza vincendo e lasciando dietro la sua ruota due signori di nome De Vlaeminck e Moser.
Oggi l’interprete più autorevole del pavé è il belga Johan Museeuw con tre vittorie (‘96, 2000 e 2002).

Condividi sui social: