Kuching, la città del “Raja Bianco”
Oggi la città della dinastia dei Brooke, Kuching, è una delle più belle di tutto il sud est asiatico. Sorge quasi interamente sulla riva meridionale del Sungai Sarawak e proprio il lungofiume è la via principale, animata a ogni ora del giorno e della sera, con chioschi per il cibo, caffè e aiuole fiorite. Il centro è piuttosto piccolo, facile da visitare, ingentilito da bellissimi parchi e giardini. Alcuni degli edifici più suggestivi sono legati alla storia dei rajah bianchi: prima di tutto Istana, il monumentale candido palazzo circondato da prati, fatto costruire da Charles Brooke, nipote di James, e oggi residenza del governatore del Sarawak. Poi Fort Margherita, nascosto dagli alberi sulla sommità di una collina. Costruito nel 1879 per proteggere Kuching dalle incursioni dei pirati, oggi ospita il Museo della Polizia e, più che per quello che contiene, merita una visita per la splendida vista sul fiume e sulla città. Molto più interessante è invece il Sarawak Museum, la cui raccolta iniziale venne messa insieme dal celebre antropologo Alfred Wallace, che trascorse a Kuching due anni, invitato da Charles Brooke. Il museo vale senz’altro una visita perché illustra la cultura e gli stili di vita delle tribù del Borneo, tra cui si trovano, naturalmente, i teschi-trofeo dei cacciatori di teste e i manufatti realizzati nelle long-house.
All’interno della “casa comune”
Prima di lasciare la regione attorno a Kuching è indispensabile partire per un’escursione all’interno dell’isola per visitare una di queste costruzioni, dove molte famiglie malesi vivono come tre secoli addietro. Le long-house sono gli edifici più tipici e caratteristici di tutta la tradizione architettonica del Borneo: lunghe un centinaio di metri, con una veranda esterna nella quale vengono conservati i prodotti della giungla, sono abitate da molte famiglie che vivono tutte assieme, “governate” da un anziano, che è il capo della comunità. Ogni nucleo familiare ha a propria disposizione una o due stanze che si affacciano su un lungo corridoio ricoperto da stuoie di rattan e foglie di bambù. E’ in questo spazio comune che la gente delle long-house trascorre gran parte del tempo chiacchierando, mangiando e bevendo.
Oggi è facile visitarle e i suoi abitanti sono tanto ospitali che, se non si è troppo schizzinosi, è persino possibile dormire e consumare qualche pasto in loro compagnia. Conoscendo queste persone sorridenti e gentili, che sembrano non avere proprio nulla in comune con la crudeltà dei cacciatori di teste, si rimane sorpresi nel sentire con quanto orgoglio ricordino le imprese dei loro antenati. In realtà, ancora oggi, i guerrieri che tagliavano le teste dei nemici rimangono per gli abitanti del Borneo un simbolo di forza, una testimonianza del coraggio con cui difendevano i loro villaggi dalle incursioni dei nemici.
Nella tana di Monsopiad
Una traccia di questo modo di pensare rimane tutt’ora. Per rendersene conto basta una visita al villaggio di Kwai, nel Sabah, a nord est del Sarawak. Qui abitava uno dei più famosi tagliatori di teste della zona, vissuto tre secoli fa: si chiamava Monsopiad ed era considerato il più forte del villaggio perché aveva difeso la sua gente dalle incursioni dei pirati che arrivavano dalle Filippine e dall’Oman, risalendo il fiume Kwai. Oggi, la sua casa è stata trasformata in un piccolo museo dove sono ancora conservati alcuni crani degli antichi nemici. Proprio a fianco abita il suo discendente della sesta generazione, Dousia Moujing, felice di accogliere i turisti e mostrare loro la spada del suo avo, guarnita con un ciuffo di capelli di una delle vittime. D’altra parte sono molti gli abitanti del Borneo che raccontano con orgoglio di essere discendenti diretti dei tagliatori di teste. Questa abitudine, antica quanto queste popolazioni, faceva parte di un vero e proprio rito. L’operazione di scarnificare il cranio, eliminandone la pelle, era un modo per onorare il nemico, preservandone la testa. Essendo ovviamente portata a termine quando la vittima era morta, non era considerata crudele. Anticamente poi i crani essiccati venivano conservati in un apposito edificio circolare con il tetto a cono e un caminetto centrale, che veniva utilizzato come sala di concilio degli anziani ed anche per ospitare gli stranieri.
A Kwai, si crede che lo spirito di Monsopiad si tramandi da una generazione all’altra e che il discendente dell’antico guerriero possa ancora mettersi in contatto con le anime di coloro che erano stati uccisi.
Oggi, a Kwai, solo riti incruenti
Nonostante il villaggio di Kwai sia diventato una meta turistica, le antiche tradizioni sono estremamente vive nella popolazione. Molti degli anziani sono ancora animisti, altri mescolano le credenze animiste con la religione cristiana o musulmana. E la festa del raccolto, che si tiene ogni anno alla fine di maggio, con gare di bufali e di lotta, sfide con la cerbottana, musiche, canti e grandi bevute di vino di riso e di tapioca, non è soltanto un’attrazione per gli stranieri, ma è intimamente sentita da tutta la comunità. E’ proprio questa autenticità che rende il Borneo una meta così suggestiva, un luogo dove ritrovare le radici vere, o letterarie, di una civiltà antica e tuttavia quasi sconosciuta.