Ora ci si può sposare perfino stando seduti in auto: proprio come avviene nell’intero territorio degli Stati Uniti per ritirare i soldi al bancomat o per comprare hamburger e milk-shake in uno dei moltissimi Mc Donald.
Sembra incredibile, ma il già consumistico matrimonio lampo di Las Vegas è stato ulteriormente velocizzato. Tanto da far diventare tradizionale e romantico quelli come il mio, dei tardi anni Ottanta. Ma il fast-marriage (matrimonio veloce) non è la cosa più curiosa o particolare che offre questa città al limite del surreale: è una delle tante che fanno della capitale del Nevada il luogo deputato del “kitsch” senza storia.
La città di Bugsy
Anche se una sua storia Las Vegas ce l’ha, né eroica né esemplare, ma sufficiente a spiegarne l’improbabile collocazione in un deserto gelido in inverno e torrido in estate, dove qualsiasi forma di vita ha difficoltà ad attecchire e niente può convincere la gente a restare. Il nome spagnolo che significa “i prati, i campi” la dice lunga.
Gli fu dato da un esploratore che, scoperta qui una sorgente d’acqua, ne fece una stazione di rifornimento per i treni che da Salt Lake City andavano a Los Angeles. Questo succedeva nel 1850, ma ci vollero più di ottant’anni e la mente imprenditoriale di Benjamin Siegel, per dare vita a una città.
Gangster e nemmeno dei più noti, Bugsy, così era chiamato dagli amici ammesso che ne avesse, sfruttò i terreni a buon mercato e la lontananza dalla civiltà e dai controlli, per creare case da gioco e casinò. Un piccolo borgo del peccato al servizio del dio dollaro che Benjamin, in un impeto di romanticismo, dedicò alla sua fidanzata, dando così inizio, forse inconsapevolmente, accanto al filone del gioco d’azzardo, anche a quello amoroso e matrimoniale. Meno redditizio, ma ugualmente fonte di lauti guadagni.
Effetti speciali a tutti i costi
Per chiunque arrivi a Las Vegas lo shock è di rigore. Perfino per chi ci ritorna dopo qualche tempo. La città cambia in modo incredibile, febbrile, ansiogeno.
In un anno viene costruito un hotel di trenta piani con una hall dove potrebbero parcheggiare nove Boeing-747, come il Luxor, o il Venetian, ricostruzione della città lagunare con campanile di San Marco e Canal Grande zeppo di gondole e gondolieri; oppure come il Paris, con una Tour Eiffel quasi “life size”.
Così come in poco meno di quindici secondi viene fatto saltare in aria un grattacielo costruito qualche anno prima. Così è stato per il Landmark Hotel: una scena spettacolare ripresa dal regista Tim Burton per il colossal “Mars Attack”, uscito nel 1996. Degli alberghi degli anni Ottanta non restano tracce sullo Strip, che percorre l’intera città, un’autostrada che diventa di colpo via di traffico metropolitano.
L’unico che resiste, ed è anche tornato nella rosa degli eletti, è il Caesar’s Palace. Come una diva matura dal fascino carismatico e i ripetuti lifting, il mitico hotel dove si tenevano i più importanti incontri di boxe negli anni Settanta e Ottanta, continua a imbambolare folle di turisti e giocatori con i suoi insulsi colonnati dorico-corinzi, i suoi pacchiani arredi da antica Roma, le sue goffe cameriere vestite con improbabili gonnelline da Diana cacciatrice.
Anche qui, come negli altri hotel, gli spettacoli di suoni e luci si susseguono a ripetizione, sempre più grandiosi, costosi, con conseguenti minori capacità di raccontare ed emozionare e ricercate maggiori finalità di stupire e raggiungere un primato da Guinness. A idearli sono guru degli effetti speciali della cinematografia, come Douglas Trumbull di “Incontri ravvicinati” e “Ritorno al futuro” o maghi dell’illuminazione come David Hersey, direttore luci dei musical “Evita” e “Cats”.
La febbre del gioco, dappertutto
L’unico comune denominatore di questi alberghi è la presenza dell’elemento gioco. Possono essere gli enormi tavoli da roulette e baccarat e gli sconfinati “filari” di slot machines; più avveniristiche nei saloni dei grandi alberghi, oppure come le dieci macchinette un po’ obsolete, che affollano la micro hall del motel da trenta dollari a notte.
Il gioco qui è ovunque. Dà il benvenuto con migliaia di slot machines all’aeroporto, accoglie chi entra nella hall dei centri commerciali. Accompagna i visitatori nei corridoi degli hotel e fino ai saloni con gli “all-you-can-eat-buffet”, ricchi tavoli imbanditi dove ci si abbuffa ai limiti dell’impossibile con dieci dollari. Distrae chi è in coda al Mc Donald, ai Kentucky Fried Chicken, fino ai distributori di benzina e alle toilette pubbliche.
E per chi non ama il gioco? Non andare a Las Vegas sembra la risposta ovvia. Ma non lo è. Si può fare come ho fatto io (e non sono stata la prima) che trovandomi in viaggio con un signore con cui già condividevo molte cose, fra cui la non passione per il gioco, ho deciso di buttarmi sull’altra attrattiva. Ed è stato così che mi sono sposata nel Nevada.
“Romantici” preparativi
Il primo passo è la scelta della cappella o chiesa, qualcosa di molto più vicino alla casetta della Barbie che a un luogo religioso. Un’operazione complessa dato che a Downtown, in fondo allo Strip, si susseguono numerose con insegne ammiccanti, cuori e profusione di rosa, buttadentro in costume e banditori con proposte “all included”. Un campionario di kitsch così oltraggioso, da dissuadere dal matrimonio anche la “nozze-fondaia” più integralista.
Optiamo per la Candlelight Wedding Chapel, la prima dello Strip con facciata di legno giallo, quasi minimalista. Un distinto Mr. Douglas ci comunica dove ottenere i documenti e ci prenota il primo matrimonio disponibile: alle 23 e 30. Ci informa sui costi e su quelli degli eventuali optional: foto, musica, fiori, giarrettiera per la sposa da lanciare. Diciamo no a tutto. Dato che non abbiamo testimoni, lo farà lui.
Abbiamo poco tempo e con un taxi raggiungiamo il simil-municipio aperto fino alle 23. A uno sportello una signora ottantenne con abitino a fiori e treccine da dodicenne ci consegna dei fogli da compilare. Dobbiamo scrivere nome, indirizzo, data e luogo di nascita e matrimoni precedenti. C’è posto per sette, e io, con un solo matrimonio alle spalle, mi sento un po’ imbarazzata e molto provinciale.
Dato che non chiedono documenti (tipo passaporto) propongo di inserire nomi di amici a caso, per salvare le apparenze, ma il mio futuro sposo, che ha preso troppo sul serio la faccenda, me lo impedisce.
Marcia nuziale
Dopo un salto veloce in albergo per mettersi un’altra T-shirt e un altro paio di pantaloni siamo di ritorno alla Candlelight, dove il portinaio-gestore e futuro nostro testimone ci comunica che il reverendo che ci sposerà ha qualche minuto di ritardo. Forse un disguido sulla sua tabella di marcia di venticinque matrimoni giornalieri, pensiamo. Intanto Mr. Douglas ci intrattiene con la storia della cappella che lui sostiene la più ambita di Las Vegas. Qui sono convolati a nozze Tony Curtis, Michael Caine, Barry White.
Arriva il reverendo, alto, americanissimo, tutto vestito di rosa: abito, camicia, cravatta, scarpe. Pronuncia i soliti discorsi compreso il “se qualcuno ha qualcosa da dire parli ora o taccia per sempre” che suona un po’ strano in quel consesso di quattro persone, per cui a stento riesco a trattenere una risata. Pronunciamo i “si, lo voglio” fatidici e siamo marito a moglie.
Il nostro testimone, ora in veste di portinaio-gestore, ci chiede un’offerta per il reverendo. Non capiamo perché ma ci adeguiamo. Uscendo sullo Strip la gente che passa applaude, gridando “Viva gli Sposi”, mentre una nuova coppia entra nella cappella. Avanti il prossimo!