Suonata da orchestrine improvvisate, dalle bande delle “peñas” (i club taurini) che attraversano la città precedute da striscioni inneggianti al santo, riproposta dai numerosi protagonisti nei bar, nelle osterie, nelle vie e nelle piazze per nove lunghi giorni. Tanti infatti ne dura la “Fiesta” in onore di San Fermìn, vescovo e martire, patrono di Pamplona e della Navarra.
“Siete de Julio San Fermìn!” proclamano i cori composti da genti di paesi diversi, in “plaza del Castillo”, nella “plaza de toros”, per le strade dell’”encierro” (la corsa davanti ai tori); i punti di riferimento nella Pamplona dei “Sanfermines” (così è definito tutto il ciclo dei festeggiamenti).
Il 7 luglio è per Pamplona e tutta la Navarra una data magica, un giorno intorno al quale ruota tutto il resto dell’anno. I Sanfermines, oltretutto, dagli anni Trenta del secolo scorso hanno abbandonato la vecchia dimensione regionale e sono divenuti un appuntamento fisso, un grande momento folcloristico del calendario mondiale.
Hemingway l’ha resa celebre
Cantore di questa “Feria” così tipicamente spagnola fu Ernest Hemingway, la cui statua decora il piazzale della plaza de toros, all’inizio del viale a lui dedicato.
Grazie alla pubblicità propiziatale dall’avventuroso scrittore americano in “The Sun also Rises” (Il Sole sorge ancora, 1926) in seguito ribattezzato “Fiesta”, Pamplona è divenuta meta di un turismo quanto mai eterogeneo.
Nei giorni della festa la città si trasforma, gli alberghi triplicano i prezzi, i ristoranti servono pranzi e cene senza interruzione, i bar non conoscono orari.
Mentre metà dei pamplonesi sfrutta l’occasione per rimpinguare un’economia che comunque non può dirsi povera – Pamplona è tra le città spagnole capoluogo di provincia una delle più svettanti nel miracolo economico nazionale – l’altra metà, quella non direttamente interessata alle vicende economiche della Fiesta o che comunque non ama la bolgia che ne deriva, va in ferie, in molti casi dopo avere affittato la propria abitazione ai “Pamplonìcas” di fuori città.
Bianco e rosso i colori della Feria
La festa di San Fermìn tocca il culmine il 7 di luglio e termina il 14, ma vede l’inizio ufficiale a mezzogiorno del giorno 6, con l’accensione del “chupinazo”, un razzo il cui scoppio è seguito dall’apertura di bottiglie di “champàn” locale, “cava” (lo spumante spagnolo dal buon rapporto qualità-prezzo) e “sidra”.
La piazza della “Casa Consistorial”, dal cui balcone principale parte il razzo inaugurale, è un mare di folla dall’entusiasmo incontenibile, vestita esclusivamente di bianco e rosso, i colori dominanti di questa grande kermesse. La divisa di ogni pamplonìca, in servizio permanente effettivo o di complemento, non ammette sgarri: camicia, pantaloni o gonna bianchi, un’abbondante sciarpa rossa fascia la vita, un basco e un fazzoletto, sempre rigidamente rossi, coprono la testa e circondano il collo. Rosso e bianco, bianco e rosso.
Fa peraltro una certa impressione vedere il basco, copricapo comunissimo tra le genti pirenaiche e solitamente nero, tingersi di rosso e costituire l’emblema di una terra, la Navarra, che fu a lungo un regno indipendente da Spagna e Francia e l’ultimo a unirsi alla corona spagnola nel 1512, con un territorio che si estendeva su entrambi i versanti dei Pirenei.
Nel pomeriggio del 6 luglio l’entusiasmo esploso con il chupinazo prosegue con il “Riau Riau”, una festa delle peñas e delle bande musicali nelle strade cittadine a colpi di lazzi, canti, danze e scherzi non sempre di buon gusto, a tal punto che per alcuni anni il Riau Riau, divenuto eccessivamente violento, fu saggiamente sospeso; anche per motivi politici.
Viva, Gora San Fermìn
San Fermìn e i festeggiamenti in suo onore rappresentano una grande occasione d’incontro tra le stesse genti della Navarra, così diverse tra loro.
Quelle settentrionali, verso le cime pirenaiche e i passi (tra cui il leggendario Roncisvalle) che dividono la regione spagnola dalla Francia, possiedono le caratteristiche pressoché universali della gente di montagna: parlano prevalentemente il basco e sono più sensibili ai richiami autonomistici del vicino Paìs Vasco.
I Navarros della pianura, a sud di Pamplona, vantano una fiorente agricoltura e fanno una certa fatica a esprimersi in basco, soprattutto l’alta percentuale di immigrati proveniente dal centro sud della Spagna. San Fermìn, per certo aiutato dalle libagioni in suo onore, unisce pastori e contadini navarri, chi parla basco e chi si esprime in castigliano.
L’unica pausa nella non-stop folcloristica e godereccia si ha nella mattina del 7 luglio durante la processione in onore del santo patrono. Chi non conosce che cosa significhi venerazione, non ha che da assistere al passaggio della statua di San Fermìn: battimani, cori di Viva e Gora (viva, in basco) San Fermìn, invocazioni, inni.
San Fermìn, la processione
La statua è scortata dal sindaco e dall’intero consiglio comunale; i consiglieri, che sfoggiano eleganti frac con il cilindro, avanzano appoggiandosi a un bastone dal pomello d’avorio, mentre le signore indossano un nero costume locale su camicetta ricamata.
Tra i saluti della folla e l’ondeggiare di “gigantes y cabezudos” (grandi immagini di cartapesta) la processione attraversa la vecchia Pamplona, con due soste estremamente suggestive: nella “plaza del Consejo” e nella “Calle Mayor” per ascoltare le “jotas”, canti locali dedicati al santo. Il ballo davanti alla cattedrale, che non può non essere goffo vista la mole degli interpreti, i citati gigantes y cabezudos, pone termine alla processione.
La stessa mattina del 7 (anticipata il giorno precedente da una “novillada”, la corrida con tori di tre anni) inizia la “feria taurina” vera e propria con l’emozionante “encierro”, la maggior attrazione e il vero momento magico dei Sanfermines, un appuntamento quotidiano che produrrà adrenalina fino al 14 luglio.
Alé, toros!
Questo bizzarro modo di condurre i tori dal recinto in cui sono stati scaricati (al loro arrivo dalla “ganaderìa”, allevamento) ai “toriles” della plaza de toros, è vecchio quanto i festeggiamenti in onore di San Fermìn: circa trecento anni.
Alle 8 in punto, all’ultimo tocco delle campane della chiesa di San Cernìn, viene sparato il chupinazo a mo’ del colpo di pistola dello starter in una gara di atletica.
Dai “corrales” di Santo Domingo i sei tori che combatteranno nel pomeriggio vengono lasciati liberi insieme ad alcuni “cabestros”, buoi e giovenche.
L’itinerario, immutato nei secoli, passa per la “plaza del Ayuntamiento” (municipio), la celeberrima “calle Estafeta” e termina nella plaza de toros.
Chi ha avuto il coraggio di restare all’interno dell’encierro, delimitato da alte palizzate di legno, adesso deve sbrigarsi.
Non bastano le rituali preghiere a San Fermìn recitate prima del chupinazo: “A San Fermìn pedimos, por ser nuestro patròn, nos guie en el encierro, dando nos su bendiciòn; Viva, Gora San Fermìn!” (A San Fermìn nostro patrono chiediamo che ci guidi nell’encierro, dandoci la sua benedizione; Viva, Viva San Fermìn!) e non basta nemmeno il tradizionale giornale portafortuna, arrotolato e impugnato nella mano destra. Bisogna correre, tanto, e soprattutto prestare molta
attenzione. Si potrebbe finire contro un corridore maldestro o, peggio ancora, essere calpestati da un toro pesante mezza tonnellata, e anche più. Se poi il toro carica con le corna, ci può scappare il morto
(ultimo, un ragazzo americano nel ’95, poco meno di una dozzina nel secolo scorso).
Correre, col cuore in gola
Dopo circa due, tre minuti (ma un encierro può durare anche molto di più perché il tempo è preso all’ingresso dell’ultimo bovino) i tori irrompono dentro la plaza.
Dalle tribune applaude una moltitudine di appassionati e curiosi, sonnolenti non meno che vocianti; una metà di loro ha affrontato una levataccia, l’altra metà non è ancora andata a dormire.
Più pericolosamente, nel “redondel” o “albèro”, il terreno centrale dell’arena ove si svolge la corrida, i più temerari sfidano il pericolo affrontando “toros bravos”, giovenchi e “vaquillas” (anch’esse pericolose: caricano imprevedibili, nervosette, senza geometrie).
Mentre i tori veri e propri, quelli destinati alla corrida, vengono immediatamente infilati nei “chiqueros”, gli altri cornupeti restano a disposizione dei giovani o di chi ancora si illude, o spera o tenta, di poter fermare il tempo. Improbabili “matadores” arrivati da Sydney o Brescia o Stoccolma, sognano di compiere un’ardita “veronica” o un elegante “pase de pecho”.
E così, di encierro in encierro, di corrida in corrida, di “tertulia” (discussioni su tori e toreri) in tertulia, di bevuta in bevuta (Bienaventurados los borrachos porque ellos veràn pasar a Dios dos veces) e non occorre traduzione, si festeggia San Fermìn.
Il 14 luglio, al termine della corrida (un tempo era tradizione chiudere con i mitici Miura) il “mundillo” taurino di Spagna e degli aficionados venuti da tante parti del mondo, si saluta. Arrivederci ai prossimi Sanfermines.
Ma per chi non vive solo di “Pan y Toros” c’è ancora un ultimo appuntamento.
A mezzanotte si canta il “Pobre de mì, pobre de mì, que se han acabado las fiestas de San Fermìn” (povero me, che è finita la festa di San Fermìn).
Cosa farà adesso il povero pamplonica? Unico sollievo: “ya falta menos”; è già cominciato il conto alla rovescia e manca sempre meno tempo al prossimo “siete de Julio, San Fermìn”.