“Preferisco che il lavoro parli di sé. Cerco di creare immagini che sono universalmente leggibili e autoesplicative… un artista è un portavoce della società, in qualsiasi punto della storia. Il suo linguaggio è determinato dalla percezione del mondo in cui tutti viviamo”.
Ecco l’idea ispiratrice dell’artista americano Keith Haring, simbolo del graffitismo underground, e protagonista della scena prima europea e poi newyorkese degli anni Ottanta, morto nel ’90 a soli trentun anni di aids, e che ora, a quindici anni dalla morte, viene ricordato in una grande retrospettiva “The Keith Haring Show” alla Triennale di Milano. La rassegna, curata da Gianni Mercurio e Julia Gruen, assistente personale dell’artista negli ultimi sei anni di vita e oggi direttore della Keith Haring Foundation, comprende circa cento dipinti, quaranta disegni, numerose sculture e opere su carta di grande formato.
Una vasta documentazione fotografica, circa seicento immagini, documenta inoltre il contesto attorno a cui è nata e si è sviluppata la sua arte. Tra le tele che raggiungono le dimensioni di oltre dieci metri di base o di altezza, vi sono le scenografie realizzate per la discoteca Palladium di New York, tempio della vita notturna negli anni ’80, e la scenografia realizzata per “The Marriage of Heaven and Hell” di Roland Petit per il Ballet National de Marseille. Sono esposte le famose “subway drawings”, le maschere “primitive” e cubiste, i grandi vasi di terracotta, le sculture totemiche in legno pittogrammate e quelle in metallo con i suoi omini realizzati con colori primari, le statue in gesso del David di Michelangelo o Madame Pompadour.
Underground e non solo
Gli esordi anticonformisti di Ketih Haring, in linea con la cultura underground, si sono svolti nei tunnel della metropolitana di New York, dove si divertiva a disegnare furtivamente figurine stilizzate e provocatorie sui cartelloni pubblicitari dei sottopassaggi. “Haring infatti non interviene con i suoi graffi sui vagoni della metro e rarissimamente sui muri degli edifici – sottolinea Mercurio – i suoi murales e le sue opere pubbliche sono un’altra cosa, e occupa unicamente lo spazio destinato alla pubblicità, quello che gli esperti direttori di marketing sceglievano per reclamizzare i prodotti”. Cresciuto in una piccola cittadina conservatrice della Pennsylvania, il più vecchio di cinque figli, l’unico maschio, con il padre ingegnere e la madre casalinga, arriva a New York nel 1978 per frequentare la Scuola di Arti Visive. Qui studia semiotica con Keith Sonnier e arte concettuale con J.Kosuth, ma sempre riconoscerà al padre il merito di avergli insegnato a disegnare e a inventare personaggi piuttosto che ricopiarli. “Haring – ricorda Julia Gruen era molto generoso, aveva tempo per chiunque, amava il pubblico e amava la vita più di ogni altra cosa. Ciò lo si può vedere nelle sue opere”. Ma vi era un’altra cosa importante per Haring: l’accessibilità delle sue opere, il concetto di “all over”, secondo cui “l’arte deve poter essere per tutti e dappertutto”. Per questo Haring sceglieva di esprimersi nei luoghi più a contatto con la gente e più visibili. Per questo sceglieva talvolta di coinvolgere nel suo lavoro bambini e studenti. Per questo sceglieva di colorare con figure allegre e vivaci le pareti di orfanotrofi e ospedali, oltre che quelle di locali, strade, cartelloni pubblicitari. “Il suo progetto – riflette Gianni Mercurio – era attingere, elaborare vari linguaggi, alti e bassi – non importa se di provenienza primitivista, rinascimentale o fiamminga – e creare un linguaggio rituale suo proprio che potesse comunicare a tutti il suo messaggio, un’arte talmente forte da poter penetrare tutto”. Importante è stato il ritrovamento dei “diari” che hanno consentito una lettura nuova dell’artista, rivelando una profonda cultura artistica ed esistenziale.
Un linguaggio universale
Haring è un artista che si è mosso nella storia dell’arte moderna e contemporanea, nelle cui opere i rimandi alle iconografie e alle tematiche dell’arte occidentale, dal Medioevo agli anni Sessanta, e alle culture tribali africane, asiatiche e sudamericane, soprattutto precolombiane sono tanti. Questo aspetto significativo della sua complessa personalità è messo a confronto, nella mostra, con le radici culturali e i riferimenti storico-artistici europei e americani a cui l’artista ha fatto riferimento, dal primitivismo all’arte fantastica, apocalittica, pop, espressionismo astratto.
“I suoi riferimenti, gli artisti che più apprezza – spiega nel saggio all’interno del catalogo edito da Skira Demetrio Paparoni, critico e storico d’arte, sostenitore della necessità di un linguaggio più comunicativo e meno elitario e criptico per l’arte contemporanea – sono principalmente Henri Matisse, Fernand Léger, Pablo Picasso, Jackson Pollock, Pierre Alechinsky, Jean Dubuffet, Clyfford Still, Mark Tobey, Stuart Davis, Roy Lichtenstein, Andy Warhol. Haring non ha esitato a rifare quadri di altri, riprendendo, peraltro formalmente e in maniera esplicita, opere di Picasso, Léger o Matisse, a dimostrazione di come per gli artisti di ogni epoca la tradizione è una linfa vitale. Haring considera la storia dell’uomo fatta da idee che prendendo corpo ne generano altre, è convinto che si debba entrare in contatto con l’arte attraverso un’idea e riconoscerne gli effetti; per Haring è un’idea anche la forma. Fa propria la tesi di Isaac Newton: “Se vedo lontano è perché i miei piedi poggiano sulle spalle di giganti”.