Lunedì 29 Aprile 2024 - Anno XXII

In viaggio con papà

Miami

“Born in USA?”. No, arrivati “from Italy” per rivivere una commedia brillante del cinema di vent’anni fa. Sfidando le insidie del “jet lag” con chili di melatonina, quelle del passaporto biometrico e dello “slang” americano

 MacArthur Causeway
Maiami Mac Arthur Causeway

“Quarantaquattro”. Non sono “i gatti in fila per sei con resto di due” di Zurliniana memoria, bensì gli anni che intercorrono tra me e il mio compagno dell’ultima trasferta in terra a stelle e strisce. Detto ciò, per fugare qualsiasi dubbio su una mia presunta gerontofilia, urge una premessa che risale a un anno fa.  Nel corso di una serata “stampa” dedicata agli Stati Uniti, ho vinto un viaggio in Florida per due persone. Ne consegue che, essendo io attualmente single e dal momento che tutti i miei amici hanno fatto del viaggiare una professione, ho deciso la cosa più ovvia del mondo: il mio accompagnatore sarebbe stato uno dei miei due sponsor storici; così ho messo in piedi una morra cinese famigliare. Il vincitore è risultato papà, il “Pius” (almeno a detta di Virgilio) Enea, Biella-centrico convinto e lontano anni luce da aeroporti, ma dotato di parenti ad Orlando, Florida. Ragion per cui il Pius mi ha accompagnato in un viaggio di otto giorni che ha avuto del delirante ma che resterà, fino alla fine, il vero e inimitabile “viaggio con papà”.

La strana coppia; come Sordi e Verdone

Papà Boggio alle Everglades
Papà Boggio alle Everglades

Se nel film Sordi, manager rampante e indiscusso sciupa femmine, era il padre di uno stranito Verdone, trentenne ornitologo totalmente estraneo ai piaceri terreni, nella nostra realtà domestica io mi sono trovata a interpretare il ruolo di guida.
A cominciare dal check-in. Il nostro volo su Miami con US-Airways, implicava un avvicinamento a Roma e uno scalo a Philadelphia. L’impegno era stato quello di concentrare il bagaglio di otto giorni all’interno di due sacche, per evitare le forche caudine delle hostess di terra Alitalia che, con sorriso maliardo, ti impongono di pesare anche la tracolla porta documenti. Perciò, zavorrati dai tre cambi indossati a strati uno sopra l’altro, ma ostentando un bagaglio semi-vuoto, superiamo il blocco Alitalia e ci dirigiamo con passo sicuro verso il nostro gate.

In volo verso gli States

Tramonto a Miami
Tramonto a Miami

Chi conosce Fiumicino sa che, per raggiungere dal terminal “A”, dove convergono i voli nazionali, il terminal “C” deputato ai voli intercontinentali, deve percorrere un’estenuante maratona tra duty-free e controlli passaporti. Non per niente le compagnie, complici e consapevoli, suggeriscono ai clienti di arrivare con tre ore d’anticipo. Fatto sta che Enea è pronto; tapis roulant e navette ci conducono al gate dove ci presentiamo con i nostri avveniristici biglietti elettronici. Bevuto l’ultimo caffè (che possa essere degno di tale definizione) al celeberrimo Tazza D’Oro, ci imbarchiamo sul nostro fiammante A340 con destinazione Philadelphia.
Del volo non c’è molto da dire al di là dei ripetuti “risvegli” perpetrati da mio padre su di me. Le motivazioni? Le più varie. Dal dilemma amletico “Chicken o Beef?” del plastificato pasto a bordo, al “chissà se passiamo sopra la Groenlandia o tagliamo più a sud”; dal “la mamma e Linkina (la cagnetta) stanno andando a nanna” al “senti come russa la suora seduta accanto”. Con la sua cantilena nelle orecchie a farmi da continuo dormiveglia trascorrono le nove ore di volo. Fino a Philly quando papà, novello Ulisse, si trova a scontrarsi con il rito del passaporto biometrico.

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Passaporto biometrico, questo sconosciuto

In viaggio con papà

“Indice sinistro, indice destro. Guardi in camera”. Questi i momenti salienti all’atto del passaggio in dogana in seguito all’introduzione del passaporto biometrico.
Da circa un anno per entrare negli States è necessario, infatti, sottoporsi allo “screening” appena descritto. In questo modo, se in possesso di passaporto a lettura ottica, è possibile chiedere di essere ammessi in America con un visto di novanta giorni. Tutto chiaro. Non per papà che si mette a contestare la procedura, seminando le basi di quello che sarebbe potuto diventare uno scandalo diplomatico. Mi immaginavo già su un volo di rientro pagato dalla Farnesina quando il doganiere, più pio del Pius, ci fa passare. Di sole due ore è la tratta che segue: la “sunshine land” è sempre più vicina.

Camera con vista su Ocean Drive

papà Ocean drive
Ocean drive

Sono le undici di sera quando atterriamo in Florida. Indifferente alle sei ore di fuso orario, la pancia del Boggio comincia a reclamare. Preferirei andare a dormire ma lo accompagno su Lincoln Road, a due passi dal Loews di South Beach. Naturalmente ci infiliamo nell’unico bistrot francese dove incorriamo in una spesa degna di uno chef pluripremiato della Ville Lumière. La cosa ci fa capire che da domani ci dedicheremo esclusivamente a ristoranti locali.
Già, il cibo. Da sempre croce e delizia del mio accompagnatore. Se la sottoscritta quando viaggia si trova a dimenticare orari, modalità e luoghi, il Pius si sveglia al mattino chiedendosi già dove si andrà per pranzo. Il nostro viaggio in Florida non poteva fare eccezione. Lo inizio così ai piaceri dei “muffins” mattutini dello StarBucks e all’esperienza carica di “garlic” (aglio) della cucina locale. I giorni a Miami scorrono tra calorici piaceri papillo gustativi, passeggiate tra le meduse di Ocean Drive ed escursioni “around the corner”. Non manca la gita in aircraft sulle Everglades, con papà che rischia l’amputazione di una falange per avere indicato un alligatore intento a scortarci durante la nostra escursione.

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Con papà tra shopping e Disneyland

papà Eleonora Boggio con il capitano di fregata
Eleonora Boggio con il capitano di fregata

Da turisti provetti quali siamo, ci imbarchiamo sulla Queen Princess per una crociera tra le ville dei vip, durante la quale vengo rimorchiata dal Capitano di Fregata: arzillo sessantenne che non mi dà tregua per l’intero itinerario mostrandomi il colonnato della villa di Julio Iglesias e la distesa di ettari del parco di Angelina Jolie. Mentre io mi divincolo fra timone e randa, Tonno Nostromo butta l’ancora: è ora di sbarcare.
Ci troviamo a Bay Side, immenso mercato coperto dove, attratta da una forza a me ben nota, varco la soglia di Victoria Secret, sacello prezioso della “lingerie” d’oltreoceano. Da acquirente compulsiva quale sono, ho i miei “must” che in America si concretizzano con Victoria Secret e con i palazzi di Banana Republic, sorta di Rinascente locale. Papà, che mi vede sistematicamente arrivare da ogni viaggio stampa carica di monili, vestiti e soprattutto scarpe (emblem

papà Ristorante Bubba Gump
Ristorante Bubba Gump

atico è l’essere riuscita a comprare due paia perfino in Malesia) mi accompagna “obtorto collo” nella spedizione Victoriana. L’epifania di lustrini e piume di struzzo non è cosa a lui gradita; contesta la mia scelta augurandosi vivamente che “la sua bambina non vada in giro vestita da ballerina del Can Can”. Da Moulin Rouge a Forrest Gump il passo è breve; almeno a Miami. Così propongo al Pius una sosta nel ristornate più delirante di Bay Side.
“La vita è una scatola di cioccolatini” recitava Tom Hanks e questa è una delle domande che ti viene posta non appena ti siedi su una panca di Bubba Gump, tempio dei gamberetti di Market Place. Per la prima volta da cinque giorni papà prende la parola urlando in inglese al cameriere “Run, Forrest, run!”.

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Orlando, tra parchi e cugini 

papà Orlando Magic Kingdom
Orlando Magic Kingdom

Terminata la prima lezione di lingua anglofona ci ritroviamo nuovamente in aeroporto per raggiungere con una tratta rapidissima Orlando. Ad aspettarci Wally, cugino di origini italiane perfettamente integrato alla stazza degli standard locali, che ci farà da nocchiero negli ultimi tre giorni dedicati alla terra dei parchi. Ci sono dei luoghi che hanno il sapore delle “madeleines” di proustiana memoria. Orlando è per me uno di quelli. Correva l’anno 1990 l’ultima volta che con il Pius ho varcato le porte di Epcot. A distanza di sedici anni tutto mi è sembrato come allora. Certo, nuove attrazioni “torcibudella” hanno fatto irruzione accanto a quelle storiche considerate ormai obsolete, però la monorotaia, il viaggio nel tempo all’interno della sfera tecnologica e la riproduzione del mondo in miniatura sono rimasti immutati. Sono tentata di farmi scortare dal cugino Wally nel paradiso degli effetti speciali dell’MGM ma so che il Pius, da eterno Peter Pan quale è, preferisce dedicare l’ultima giornata al Magic Kingdom: il mondo dei bambini disegnato dalla fantasia di Walt Disney. Così ci buttiamo sulle tazze del cappellaio matto di Alice, calchiamo la scena di Toy Story e giochiamo con il dispettoso alieno Stich. Seguiamo il discorso di investitura di Abramo Lincoln e ci lanciamo nei meandri della casa dei fantasmi fino a sera, quando già è ora di fare le valigie. Chiudiamo a stento un bagaglio lievitato nel peso e raddoppiato nel numero. Pronti a sfidare, nell’epopea del viaggio di ritorno, le infide hostess dalla pesa facile.
Così, dopo scali, cambi e corse tra vari terminal, la nostra Odissea giunge all’epilogo. A Linate papà torna a vestire i panni del genitore e io quelli della figlia sognatrice che non potrà mai scordare i momenti vissuti con l’unico uomo capace di mettersi in gioco, tornando bambino, nel corso di una spedizione oltreoceano. Fatta di sorrisi, emozioni e conferme che sigleranno quello che resterà per sempre il mio “viaggio con papà”.

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