Mercoledì 30 Ottobre 2024 - Anno XXII

“Whiskey” d’Irlanda: una vocale che conta

Whiskeys

Dall’ “acqua-di-vita” dei monaci irlandesi, all’atmosfera unica dei “pub” dell’isola verde, ecco i segreti di una bevanda universale, ma soprattutto “Irish”. Prima di tutto nel nome, che comprende “rigorosamente” quella vocale in più

Whiskey (Foto:irishwhiskeyevent)
Whiskey (Foto:irishwhiskeyevent)

Per un certo “glorioso” periodo di spot televisivi d’antan, in Italia il più grande esperto di whisky si chiamava Michele. Ecco quindi l’elegantissimo, asettico Michele che, attorniato da altri improponibili personaggi (tutti belli, ben vestiti, con la voce impostata e la dizione perfetta) annusava delicata­mente, sollevava il bicchiere per controllare in controluce la purezza del liquido e quindi affermava, sicuro: “è il whisky tal-dei-tali”. Era in grado di riconoscerlo anche se gli avessero messo la mano sugli occhi, se fosse stato distratto da qualche avvenente compagna d’assaggio o fosse giunto in quel momento dai quaranta sottozero dell’Antartide, con l’olfatto irrimediabilmente compromesso. Era senza dubbio un mostro di bravura, almeno per la marca reclamizzata.

Bere whisky nelle terre del “yes”

whiskey Glen Scotia

In America c’è meno classe, ma più sostanza. Già là il whisky lo chia­mano “torcibudella” e proviene in gran parte dal rude Kentucky; ovvio che chi beve “bourbon” lo faccia conscio della possibilità di bruciarsi lo stomaco, anche se alla fine avrà dimostrato di essere un perfetto esemplare del Mid West. In Inghilterra gli avventori dei numerosissimi “pub” bevono whisky a piccoli sorsi, a labbra serrate, come si addice a chi impiega una lingua in gran parte sussurrata, insinuante. Lo bevo­no puro, di solito. L’americanismo dilagante, tuttavia, ha fatto si che molti sudditi di Sua Maestà abbiano preso la riprovevole abitudine di annegare la sacra bevanda con quantità industriali di cubetti di ghiac­cio. E’ la collaudata ricetta “on-the-rocks”, di universale successo. Se si sale ancora un po’, in Scozia, cominciamo a incontrare persone – sanguigne, moderatamente chiassose – che “sanno” bere meglio degli altri, per innata tradizione. Ma è oltre un breve tratto di mare, in un’altra delle grandi isole britanniche, che il “whiskey” (con la “e”, badate bene) viene “vissuto” più che bevuto, come in nessun altro luogo della terra. Questo posto è l’Irlanda, che si picca di produrre il miglior whiskey che ci sia e si picca, per di più, di saperlo bere come va bevuto: discutendo, assaporando, filosofando, quasi.
A Dublino come a Belfast, a Cork come a Galway o nel più sperduto dei villaggi dell’interno, così come negli imponenti e storici castelli che punteggiano il verde tappeto che si chiama Irlanda, in quest’isola, insomma, il whiskey (sempre con la “e”) è una vera e propria religione.

Dai monaci, le antiche ricette

Old_casks_in_Bushmill's_

L’arte della distillazione è alla base della preparazione di un buon whiskey, così come di altre bevande alcoliche. Nel caso del whiskey irlandese quest’arte, importata nell’isola verso il 600 dopo Cristo, la si deve ai monaci. Forse pensavano di poter distillare profumi ed essenze, come avevano visto fare nei paesi caldi del Mediterraneo; finirono invece per produrre una specie di bevanda che chiamarono “Uisce Beatha”, parole gaeliche o “irish” che stanno per “acqua di vita”. Si deve poi alla lingua inglese se i due vocaboli originali, aspri nella grafia ma docili all’orecchio, divennero “whiskey”, una delle poche parole pre­senti in quasi tutti i dizionari del mondo. L’“acqua-di-vita” è compagna discreta e invadente insieme della gior­nata irlandese. Questo perché sono gli stessi irlandesi, pochissimo discreti ma per fortuna nient’affatto invadenti, a far si che il visitatore venga coinvolto, grazie alla complicità della celebre bevanda, nell’af­fascinante gioco d’amicizia che nell’Eire è una specie di sport nazio­nale.
In uno dei numerosissimi “pub” di Dublino o di qualunque altra città o paese, è molto facile che un avventore, intento a sorbirsi la sua dose di “Uisce Beatha”, vi coinvolga in amichevoli colloqui sul clima mutevole dell’isola, sul sole dell’Italia, sul gioco del calcio, non dimenticando che cinque campionati del mondo fa, quando l’Eire fece un’ottima figura a Italia ’90, loro, al seguito dei propri beniamini, dovettero accontentarsi di ciò che trovavano nella penisola, whisky (senza “e”) come birra, rimpiangendo non poco la produzione di casa.

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Bicchiere “privato”, whiskey “salvato”

Bushmills attribuzione Textman
Bushmills-attribuzione-Textman

Gli irlandesi amano parlare; amano anche ascoltare, però. Per questo preciso motivo i colloqui sono sempre una fitta ragnatela di messaggi – i più diversi e magari slegati per tema – che si intrec­ciano attraverso i tavolini del pub o sul filo di lucenti banconi.
Bevendo whiskey, in Irlanda, è indispensabile sapere (meglio sarebbe dire: rendersi conto) di cosa si beve. Si beve una vera e propria leg­genda ed esistono regole che vanno rispettate. La prima è quella di non ficcare il naso nel whiskey dell’amico che beve con voi. Un vecchio proverbio irlandese esorta a “non portar mai via la moglie a un altro uomo e a non versare mai dell’acqua nell’al­trui whiskey”. Inutile cercare di apparire premurosi, non verrebbe ap­prezzato. Ciascuno si “manipola” la bevanda come meglio gli aggrada. Ovvio che la si può bere pura; ma se deve essere allungata con acqua, questa è operazione riservata al proprietario del bicchiere. Così dicono i veri intenditori e a loro è indispensabile credere. Ciecamente. Esistono già sufficienti motivi per arricciare il naso, sostengono, se si pensa al tanto buon whiskey sciupato col ghiaccio o per preparare l’lrish Coffee (che pure è bevanda deliziosa!) oppure ancora, “allungato” con altri ingredienti estranei, per confezionare cocktail.
E’ il whiskey puro, così come arriva in bottiglia dalle fabbriche dell’isola, quello che va bevuto. Solo in questo modo è possibile avvertire il fuoco della bevanda che entra nelle vene e si amalgama alla perfezione col calore naturale che quest’isola speciale sa infondere a tutti, da qualunque parte del mondo arrivino. E’ una delle sensazioni più belle che si provano in Irlanda ed è una sensazione che almeno una volta nella vita mette conto di sperimentare.

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Come nasce il Whiskey irlandese

Distilleria Jameson-foto cisko66
Distilleria Jameson-foto cisko66

Così come i grandi cuochi custodi­scono con gelosia le ricette dei piatti meglio riusciti o gli artigiani si tramandano i segreti di fabbricazione degli oggetti che creano, gli irlandesi sono morbosamente gelosi del whiskey che da tempo immemorabile producono. Vediamo dunque cosa occorre per “fare” un buon whiskey d’Irlanda. Anzitutto occorre acqua purissima e buon orzo. L’isola verde è notoriamente ricca di acque: fiumi, laghi, cascatelle, polle sorgive, persino piogge che non sono acide; non manca certo l’elemento primo per produrre whiskey. L’orzo, poi, è uno dei prodotti più naturali e cresce in abbondanza. L’orzo deve germinare, me­diante l’operazione di maltaggio, prima di venir essiccato. Il processo di essiccazione è il primo di una serie di piccoli “segreti” che rendono il whiskey irlandese diverso dagli altri. Viene effettuato in forni chiusi e non a fuoco diretto e ciò consente di evi­tare il successivo sapore di fumo, tipico della preparazione a fuoco diretto. Il gusto, col forno chiuso, risulterà più puro, in tutti i sensi.
La fase successiva è quella della macinatura e della miscelazione con acqua. L’orzo macinato viene immesso in gran­di tini e l’acqua che lo accompagna viene prima riscaldata e quindi raffreddata; le “temperature” impiegate costituiscono un altro segreto, di non agevole identificazio­ne! Segue l’aggiunta del lievito al mosto per favorire la fermentazione, operazione questa che richiederà tre giorni.

L’invecchiameto del whiskey

whiskey Distillery-pjt3
Invecchiamento nei barili di rovere – foto pjt3

Brindisi alcolicoE’ il momento di sottoporre il liquido a una prima distillazione. Ovvio che i procedimenti impiegati subiscano delle varianti, in funzione del prodotto finito che si vuole ottenere. La bevanda che ne deriva, liberata grazie al calore della distilla­zione, viene raccolta per mezzo della condensa. A differenza della maggior parte dei whiskies prodotti (questi senza “e”) quelli irlandesi passano attraverso tre distillazioni. Ma non è ancora whiskey bevibile, quello ottenuto. Occorre invec­chiarlo adeguatamente. Operazione che richiede almeno tre anni di “riposo” del liquido in vecchi barili di quercia a loro volta sistemati in magazzini profumati (di whiskey!) e immersi nell’ombra.Non sono comunque rari invecchiamenti per periodi di tempo superiori ai tre anni canonici; per esempio gli Irish Whiskeys di maggior prestigio, riposano per dieci, dodici anni.
E’ attraverso questo lungo sonno che il prodotto finito acquista l’ineguagliabile gusto, profumo, colore ambrato. Siamo quasi alla fine. Dopo il lungo invecchiamento, avviene il processo di miscelazione che gli irlan­desi chiamano “vatting” (da “vat”: tino, tinozza. mastello). E’ questo il segreto forse più importante. I diversi whiskeys, provenienti da barili di annate differenti, vengono miscelati – in determinate proporzioni – per ottenere una bevanda che possegga ben  precise e costanti caratteristiche. Non è un “giochino” da poco! Talvolta, nell’esercizio finale, vengono impiegate qualità di ben settecento barili diversi!L’operazione finale consiste nel travasare le magiche “miscele” in tini, aggiungendo acqua pura sino ad ottenere la gradazione alcolica desiderata. Un ultimo “riposino” e poi la fase ultima: imbottigliamento, etichettatura, imballaggio.
Il rinomato whiskey con la “e” è pronto per raggiungere ogni angolo della terra.

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Nei pub musica e brindisi

foto Hinnerk Rümenapf
foto Hinnerk Rümenapf

Nei pub, con amici abituali o con amici occasionali, magari col sotto­fondo di musiche e cori, i “toasts” si intrecciano. Non sono quelli lisci o farciti che conosciamo noi, i “toasts” irlandesi. Sono i “brindisi”, gli indirizzi di saluto e d’augurio che ci si scambia prima di bere. Fra i tanti auguri che si possono ricevere, uno è particolarmente curioso e felice: “che tu possa trascorrere una mezz’ora in paradiso, prima che il diavolo sappia della tua morte!”
Ma anche quando il diavolo arriverà, immersi come saremo nell’altrove irripeti­bile atmosfera di un pub irlandese, finiremo per alzare il bicchiere persino nella sua direzione,  augurandogli: “Slainte” (salute).
post scriptum: Questa parola, a mio modesto parere, rappresenta un buon finale ad effetto, parlando di whiskey (sempre con la “e”). Siccome c’è il rischio che qualcuno, in Irlanda, la pronunci come la vede scritta, pre­ciserò che va gorgogliata così: “Slànn-ce”.

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