“Stato di ispirazione profonda. Tutto concepito per strada nel corso di lunghe camminate. Estrema elasticità e pienezza corporea“. (Friedrich Wilhelm Nietzsche)
La filosofia e storia del camminare, come abbiamo visto, risale a ben oltre quella degli esseri umani; ma la storia del camminare, come atto culturale conscio e non semplicemente come mezzo per conseguire un fine, nasce in Europa soltanto due secoli fa.
Aristotele peripatetico
Nel XVIII secolo diversi letterati e pensatori si sforzarono di conferire sacralità alle loro passeggiate per trovare una giustificazione a questo loro “far niente”. Lo scrittore inglese John Thelwall nel 1793, con il suo The Peripatetic, fece risalire l’atto del camminare finalizzato al pensare all’antica Grecia. Egli annotava: “sotto un aspetto almeno, posso vantare una rassomiglianza con la semplicità degli antichi saggi: porto avanti le mie meditazioni a piedi”. Questa affermazione venne seguita da lì a pochi anni da una lunga serie di simili asserzioni. Fu in questo periodo che si affermò il concetto che gli antichi camminassero per pensare. Queste affermazioni si basavano sul presunto metodo di insegnamento di Aristotele. Quando Aristotele si accingeva a fondare il suo Liceo ad Atene, la città gli assegnò un appezzamento di terreno dove sorgevano i templi di Apollo e delle Muse e altri piccoli edifici. La strada che conduceva all’altare di Apollo era un colonnato coperto e questo colonnato o passeggiata (perìpatos) diede il nome alla scuola. Sembra che questo fosse il luogo dove gli allievi si riunivano e i maestri impartivano gli insegnamenti della filosofia
Le quiete vie dei Pensatori
Lì, essi passeggiavano insieme da un capo all’altro ed è per questa ragione che in seguito si disse che lo stesso Aristotele aveva l’abitudine di insegnare e tenere i suoi discorsi camminando avanti e indietro. I filosofi usciti da quella scuola venivano chiamati peripatetici e, tutt’oggi, in inglese la parola “peripatetic” significa “persona che cammina abitualmente ed estensivamente”. Oggi – per mancanza di prove empiriche – sarebbe scorretto affermare che Aristotele e i suoi allievi discutessero di filosofia passeggiando, ma, questo è sicuro, nell’antica Grecia il legame tra pensare e camminare è ricorrente, e l’architettura greca accoglie il camminare come attività sociale. Infatti, se i peripatetici devono il nome al “perìpatos” del loro Liceo, gli stoici prendono il nome dalla “stoà”, o portico. Ancora oggi nel centro Europa i nomi di molti luoghi ricordano questa associazione tra camminare e filosofare: a Heidelberg si può trovare il “Philosophenweg”, a Königsberg il “Philosophen-damm”, mentre a Copenaghen si può percorrere la Via dei Filosofi. Molti filosofi e pensatori, dopo quelli greci, furono grandi camminatori. Jean-Jacques Rousseau osservava nelle sue Confessioni: “Non riesco a meditare se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e le testa se ne va in sincronia coi miei piedi”.
Rousseau, Joyce e Woolf e i loro “flussi di coscienza”
Da queste parole si può evincere come Rousseau ritrae il camminare sia come esercizio di semplicità, sia come mezzo di contemplazione. Al termine della propria vita Rousseau scrisse un libro che richiamava il camminare addirittura nel suo titolo: “Le fantasticherie del passeggiatore solitario”. L’opera è divisa in dieci capitoli, ognuno dei quali viene chiamato proprio “Passeggiata” e numerato in sequenza. Ciascuno di questi brevi saggi autobiografici, più che una descrizione dettagliata delle sue passeggiate, somiglia a una sequenza di pensieri o di preoccupazioni che si potrebbero concepire nel corso di una passeggiata, anche se non è provato che siano il frutto di camminate reali. Ma il camminare diventa inoltre un mezzo letterario, gli fornisce una collocazione da cui parlare. La passeggiata raccontata, incoraggia la digressione e l’associazione libera di pensieri, in contrasto con la forma più rigida del discorso o della progressione cronologica di una narrazione biografica. Basta pensare come un secolo e mezzo più tardi, James Joyce e Virginia Woolf, volendo descrivere le funzioni della mente, avrebbero sviluppato lo stile chiamato “flusso di coscienza”. Nei loro romanzi “Ulisse” e “La signora Dalloway”, il guazzabuglio di pensieri e di ricordi dei protagonisti si dipana al meglio proprio durante le passeggiate. Le Fantasticherie di Rousseau si possono quindi definire una delle prime rappresentazioni di questo rapporto tra pensiero e camminare. Se la letteratura del camminare filosofico comincia da Rousseau, è quindi perché, uno tra i primi, egli giudicò le circostanze delle sue meditazioni degne di essere tramandate in dettaglio. Se fu un radicale, il suo atto più profondamente radicale fu rivalutare il personale e il privato che, proprio nel camminare, nella solitudine e nei territori incontaminati, trovavano le condizioni più favorevoli. La ribellione privata di Rousseau si avviava così a diventare cultura di pubblico dominio.
Riflessioni errabonde
Rousseau fu uno dei primi grandi intellettuali camminatori che legò la sua attività pedestre a quella del pensare. La sua esistenza errabonda ebbe inizio quando, di ritorno a Ginevra da una passeggiata domenicale in campagna, scoprì di essersi attardato troppo, trovando le porte della città già chiuse. D’impulso, il quindicenne Rousseau decise di abbandonare la propria città natale e, voltate le spalle ai cancelli, uscì a piedi dalla Svizzera per vagabondare per tutta l’Italia e la Francia. Sempre nelle sue Confessioni, Rousseau ricorda degli spensierati momenti della sua giovinezza passata a vagabondare così: “Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, mai sono esistito e con tanta fedeltà a me stesso, se così posso dire, quanto in quei viaggi che ho compiuto da solo e a piedi. La marcia ha qualcosa che anima e ravviva i miei pensieri: non riesco quasi a pensare quando resto fermo; bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi trovi il mio spirito. La vista della campagna, il susseguirsi di spettacoli piacevoli, l’aria aperta, il grande appetito, la buona salute che acquisto camminando, la libertà dell’osteria, la lontananza da tutto ciò che mi fa pesare la dipendenza, da tutto ciò che mi richiama alla mia condizione, è quanto affranca la mia anima, ispira più fiducia al mio pensiero, in qualche modo mi lancia nell’immensità degli esseri per combinarli, sceglierli, appropriarmene a mio piacimento, senza imbarazzo e senza paura”.
1 commento su “Il pensier si fa camminando”
I commenti sono chiusi.