L’imponente Eremo di Santa Rosalia alla Quisquina, arroccato sul ripido costone della montagna tra querce secolari, sembra custodire il fascino misterioso della leggenda sacra che lo lega alla vita edificante della giovane “Santuzza” di Palermo.
D’estate, l’aria è fresca e piacevole. Il sole, durante le ore centrali del giorno, filtra tra il fogliame del querceto che, come un tunnel, avvolge la stradina sterrata, unica via d’accesso all’eremo, e riesce a scaldare le spesse mura di pietra del convento e l’acciottolato della pavimentazione circostante. D’inverno, il clima è gelido e l’eremo è spesso imbiancato di neve. Da novembre a febbraio, sul lato della montagna esposto a nord, il sole non arriva mai. La stradina carrabile circondata da conifere che si distacca dalla provinciale per Agrigento e conduce all’eremo il più delle volte è bloccata. Se si è fortunati, in macchina si riesce ad arrivare soltanto nelle vicinanze del convento, su uno spiazzo su cui è stata eretta una statua bronzea di Santa Rosalia, opera dello scultore Lorenzo Reina, posta su di un masso quasi a segnare un dominio simbolico sulla fiancata del monte immersa nel verde e sulla grande vallata sottostante. Poi bisogna proseguire per alcune centinaia di metri a piedi nella neve.
L’Eremo dei Monti Sicani
L’eremo, durante la stagione fredda, è come se andasse in letargo: pochi i visitatori e i pellegrini che vi si avventurano; il silenzio e il profondo senso di isolamento che si respira, è rotto solo dai forti e armoniosi rintocchi dell’orologio del campanile della chiesa che si diffondono e vengono percepiti distintamente in tutta la zona circostante.
Nei mesi meno freddi e d’estate, l’eremo è invece frequentato da migliaia di turisti provenienti da ogni parte d’Europa, alla ricerca del buon cibo, dell’aria pulita e della natura incontaminata di cui è ricca la zona, oltre ad essere meta di pellegrinaggi religiosi da tutta la Sicilia. È situato a mille metri di altezza nel cuore dei Monti Sicani, nella riserva naturale di Monte Cammarata, al confine tra la provincia di Palermo e quella di Agrigento e dista circa quattro chilometri da Santo Stefano di Quisquina, un paese di cinquemila abitanti famoso per i formaggi pecorini, l’abbondanza di acqua ricca di minerali e il gran numero di edifici religiosi. Dal 2000 è gestito dalla Pro Loco di Santo Stefano che ha allestito al suo interno un museo di cultura agro-pastorale e di vita eremitica e ha affidato alla cooperativa di Santo Stefano di Quisquina “La Quercia Grande”, la manutenzione degli edifici (convento, chiesa e grotta) e l’organizzazione durante tutto l’arco dell’anno di visite guidate per scolaresche, turisti e pellegrini, soprattutto palermitani devoti della “Santuzza”.
Un convento di mura e rocce
Entrando dal portone principale del monastero, un tempo riservato ai monaci eremiti e vietato ai visitatori, si accede ad un piccolo cortile. Sulla destra c’è il frantoio della Quisquina con la macina ancora intatta per la spremitura dell’uva e la produzione di un vino rosso e aspro, tipico della zona. Di fronte ci sono il magazzino e la foresteria. Una scala in pietra conduce al piano superiore, dove tra pareti di roccia naturale e di muratura ci sono la dispensa, i magazzini per la conservazione della carne e della farina, le vasche per la “montatura” della ricotta e la preparazione delle forme di formaggio e i depositi di fave e ceci. Sullo stesso livello, un lungo corridoio porta sul lato opposto del convento. Sulla destra ecco le porticine di accesso alle nove cellette, le stanze in cui i frati dormivano, tutte aperte con delle piccole finestre con vista sulla valle sottostante il monte Quisquina.
All’interno di una delle cellette la Pro Loco è riuscita a recuperare e riunire gli unici oggetti un tempo a disposizione dei frati: un inginocchiatoio di legno, un baule, una bacinella, un letto, un cuscino di paglia e il saio in fustagno di Fra Vincenzo, l’ultimo eremita vissuto alla Quisquina e morto nel 1985, all’età di novantadue anni.
In fondo al lungo corridoio, sulla sinistra, c’è il refettorio, dove gli eremiti mangiavano tutti insieme in religioso silenzio. Parlare mentre si consumava un pasto era un motivo valido per essere cacciati dalla congregazione: le regole di convivenza fra i frati della Quisquina erano ferree. Di fronte al refettorio c’è la cucina, un tempo la stanza più calda del convento, dove ardeva il “fuoco perpetuo”, un braciere che non doveva spegnersi mai e di cui si occupavano, a turno, tutti gli eremiti. L’ultima celletta, in fondo al corridoio, sulla destra, era chiamata la stanza del Principe, ma era povera e disadorna come le altre, soltanto più grande e con la volta a botte. Quando il principe di Belmonte lasciava Palermo e si trasferiva alla Quisquina, un grande feudo di sua proprietà, alloggiava in quella stanza e da lì impartiva ordini.
Vita dura per novizi e religiosi
La stanza del principe è adiacente ad un arioso terrazzino aperto su tutto il paesaggio a sud-ovest. Scendendo di un livello si giunge a un grande spazio tutto in conci di pietra dove un tempo c’erano le legnaie e in cui, da qualche anno, è stata installata una mostra permanente di materiali della civiltà contadina. Passeggiando tra i cunicoli, le cellette, il refettorio e gli altri ambienti del monastero, sembra di vederli frati eremiti che per centinaia di anni lo hanno popolato, lontano da tutto e da tutti, conoscendo una vita quotidiana di sofferenze materiali e spirituali. Per i novizi, che potevano avere un’età compresa tra i sei e i trent’anni, la vita era ancora più dura. Prima di essere ammessi nella congregazione dovevano resistere per un anno nell’ultimo piano del convento, in una stanza ricoperta solo da un tetto di paglia che, quando nevicava, si trasformava in una cella frigorifera. Molti rinunciavano dopo qualche giorno. Alcuni resistevano mesi ma, alla fine, tornavano a casa. Pochi riuscivano a diventare frati della Quisquina. Alcuni tra i novizi più giovani sono morti di freddo. Quelli che riuscivano a resistere alle dure sofferenze fisiche e alla solitudine erano ammessi nella congregazione e venivano condotti al piano inferiore da una guida spirituale, di solito uno dei frati anziani della Quisquina.
Nel diciottesimo secolo, il massimo splendore
Anche se gli storiografi non confermano l’autenticità di quell’epigrafe, ancora oggi ben visibile sulla parete di roccia del cunicolo, per tutti i fedeli quella divenne immediatamente la grotta di Santa Rosalia e la Curia di Agrigento autorizzò subito la costruzione di una cappella accanto all’ingresso dell’antro. Qualche anno dopo il mercante genovese Francesco Sassi, colpito dalla storia di Santa Rosalia, investì tutto il suo denaro nella costruzione dell’eremo: fece edificare una chiesa, una cucina, una stalla e fondò, insieme ad altri tre uomini, una congregazione indipendente di frati a lei devoti. Nel corso del Settecento l’eremo fu visitato da vescovi, principi e cardinali, ricevette donazioni e offerte e le richieste di frati che volevano vivere alla Quisquina si moltiplicarono. Il suo prestigio crebbe talmente tanto che i baroni Ventimiglia, regnanti su quel territorio, decisero di ampliarne la struttura.
Nel 1772 era già compiuta la riedificazione della nuova chiesa e del monastero, così come oggi li vediamo, e da quel momento l’eremo ospitò centinaia di novizi, aspiranti eremiti.
Rosalia, la prima eremita
Ma ad attirare alla Quisquina un numero sempre più frequente di visitatori non è solo l’antico convento dei frati cappuccini e le tracce della loro rude vita monastica, né la natura rigogliosa (ricca di roverelle, lecci, aceri campestri, olmi, conifere e querce) ma è soprattutto la “grotta”: un piccolo anfratto incuneato tra le rocce dove la nobildonna siciliana Rosalia Sinibaldi, vissuta nel XII secolo, si rifugiò all’età di quattordici anni per sfuggire a un matrimonio combinato organizzato dai suoi genitori, il Conte Sinibaldo e Maria Guiscarda. La giovane eremita visse in quell’antro stretto e umido per dodici anni, dal 1150 al 1162; rinunciò a tutti gli agi e le ricchezze che la sua famiglia le offriva e si dedicò alla preghiera e all’ascetismo.
Concluso quel periodo di castità e penitenza tornò a Palermo per ritirarsi in un’altra grotta, sul monte Pellegrino, dove continuò la sua esistenza solitaria fino alla morte. Nel 1624 le sue ossa, trovate da un pastore, furono portate in processione per le vie della città, con la speranza di liberarla da una peste violentissima. L’epidemia cessò d’improvviso e Rosalia fu immediatamente riconosciuta e venerata come santa. Quaranta giorni dopo la fine dell’epidemia, due muratori scoprirono in un anfratto all’ingresso di una grotta nella selva di Quisquina un’epigrafe in latino (Ego Rosalia Sinibaldi – Qusquina Et Rosarum Domini Filia – Amore Domini Mei Jesu Christi – In Hoc Antro Abitare Decrevi) che attestava la sua presenza nella grotta.
La Riserva di Monte Cammarata
Un vero paradiso naturale per gli escursionisti che si muovono a piedi o in mountain bike, pieno di boschi naturali e artificiali, cosparso di rilievi scoscesi che s’innalzano oltre i mille metri d’altezza: la Riserva Naturale di Monte Cammarata, un territorio di circa duemila ettari inserito nel complesso dei Monti Sicani, nella Sicilia sud occidentale, comprende i comuni di San Giovanni Gemini, Cammarata e Santo Stefano di Quisquina. Ricca di specie vegetali e arbustive come roverella frassino, leccio e salice, la Riserva orientata è attraversata in lungo e in largo da sentieri, più o meno difficili, tramite i quali si possono raggiungere le aree più belle e interessanti della zona. Tra questi il più suggestivo è il “Sentiero della Quercia Grande” che parte dallo spiazzo soprastante l’eremo, dove c’è la statua bronzea di Santa Rosalia, passa davanti al vecchio monastero della Quisquina, alla famosa grotta di Santa Rosalia alla Quisquina, alla quercia secolare posta su una sporgenza della serra omonima, e torna indietro attraverso il bosco.
Santo Stefano di Quisquina
La vetta più elevata della riserva e di tutta la catena dei Monti Sicani è quella del Monte Cammarata, con i suoi 1578 metri sul livello del mare. Arroccati alle sue pendici, sul lato meno ripido, ci sono San Giovanni Gemini e Cammarata, due comuni diversi che in realtà formano un solo complesso urbano. Sugli altri versanti il monte è più ripido e cade a picco sulla campagna agrigentina. Oltre al Monte Cammarata, nel territorio della riserva ci sono il Monte Gemini, Pizzo Rondine, Pizzo dell’Arpa e Serra della Moneta, tutti sopra i mille metri di altezza e tutti formati in gran parte da rocce calcaree. Sul lato occidentale, in un’area famosa per l’abbondanza di acqua e di selvaggina, sorge Santo Stefano di Quisquina, “il paese dei santi e del formaggio”, ancor oggi conosciuto in tutta la Sicilia per la sua grande tradizione agricolo-pastorale, oltre che per il fascino storico e culturale che circonda il vicino Eremo di Quisquina, dove ai primi di giugno di ogni anno migliaia di devoti della “Santuzza” si recano in pellegrinaggio a piedi o a cavallo.
Molte aree della riserva di Monte Cammarata sono state rimboschite negli ultimi sessant’anni con pini, cipressi, cedri e aceri. Inoltre, sono state realizzate due grandi aree attrezzate, con angoli cottura e tavoli di pietra e di legno, a Savochello, sul versante di Cammarata e nel Bosco Buonanotte, sul versante di Santo Stefano, nella cui area si trova un grande maneggio per cavalli.
Nella zona dei Filici, a metà strada tra Cammarata e Santo Stefano, un vivaio specializzato coltiva piantine da utilizzare nelle opere di rimboschimento, soprattutto specie autoctone siciliane.
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