Sarà perché – come scrive Cecchi ne “La via dorata per Samarcanda” (Giunti editore) – insieme con Timbuctù è uno degli ultimi, veri miti dei viaggiatori. Invece ti accoglie un lungo viale placido da paesotto di provincia, dove scorrazzano macchine di fabbricazione giapponese e vecchie Skoda di improbabili colori: amaranto, turchese, verde pisello. E’ il viale Registanskaya, che scorre largo a circumnavigare la piazza del Registan – il centro al centro della via della Seta, restaurata così perfettamente da risultare finta – e la moschea di Bibi Khanym: punteggiato di storia, alberi e venditori di pane.
A Samarcanda ogni cibo ha il suo prezzo (“trattato” allo spasimo!)
Il pane di Samarcanda! Croccante, fragrante, con la crosta lucida e decorata dai ghirigori di stampini puntuti. Vecchie donne avvolte in strati di gonne e scialli lo vendono per strada; stanno sedute sui marciapiedi, accanto a malandati passeggini coperti da misteriosi fagotti: proprio in cima, due pagnotte a mo’ di richiamo. La gente si avvicina, tasta le pagnotte, poi chiede di scegliere. Le donne alzano i lembi dei fagotti, e sotto ci scopri un universo di pane: che resta caldo anche quando soffia un vento gelido e sottile, che entra nei vestiti e fa venire voglia di sedersi a bere un “chai”, te verde zuccherato e bollente. Il pane di Samarcanda è uno dei primi segreti che puoi scoprire qui. Ti fa venire voglia di mangiarlo subito dove sei e ti lascia in bocca il rimpianto di non poterlo trovare altrove. Quando i figli maschi partono per andare soldati, perché qui il servizio di leva esiste ancora e dura un anno, le madri preparano una forma di pane e la sistemano tra i vestiti che i loro ragazzi porteranno con sé: perché non dimentichino il sapore di casa, spiegano, e possano trovare la strada del ritorno. Quando è poi il momento di pagare, si tratta sul prezzo; del resto, in questa parte del mondo, sul prezzo si tratta per principio, forse per necessità, sicuramente per dovere. Le madri mandano le figlie preadolescenti al bazar per comperare pane, formaggio, mandorle coperte di zucchero, albicocche secche. Sanno bene quali sono i prezzi correnti, ma le ragazze non hanno mai soldi sufficienti. Se vogliono portare a termine il compito – e devono farlo – dovranno trattare con i venditori, e spuntare un prezzo inferiore. Lezioni tradizionali di economia domestica, insomma.
Le piacevoli insidie del Bazar
Il bazar di Samarcanda è un altro segreto da scoprire, ma va affrontato in solitudine, con molta calma e poco metodo. Con allegra incoscienza, piuttosto. Ampio, aperto, scandito dalle fila regolari dei mercanti, la parte coperta è riservata a chi vende cibo. Macchie arancioni: albicocche secche; arrivano dai grandi frutteti che circondano la città e in primavera trasformano i campi in una nuvola bianca di fiori profumati. Macchie bianche: mandorle e arachidi ricoperte di zucchero, una vera leccornia. Vanno assaggiate, annusate prima dell’acquisto, perché non sono tutte uguali e l’imbroglio è dietro l’angolo, soprattutto per chi non se ne intende. Macchie verdi: fichi aperti e seccati. Macchie scure di datteri dolcissimi, persino un po’ nauseanti per chi non ama il genere. E poi frutta fresca, verdure e l’angolo dei formaggi e del miele. Niente barattoli sigillati né confezioni sterili: vengono venduti in vecchi vasetti di vetro ammucchiati in un angolo e chiusi alla belle meglio con un po’ di carta e un elastico. Se va bene il miele mantiene il suo profumo; se va male può sapere di tante altre cose, non necessariamente gradevoli. Il formaggio fresco e lo yogurt stanno in grandi bacinelle che emanano un odore intenso, acidulo, di fermentazione. Viene voglia di intingerci il dito per assaggiarli; probabilmente nessuno si scandalizzerebbe.
Dalla “maledizione” di Bibi al presidente-dittatore
Al bazar non ci si limita a comperare; qui si incontrano gli uzbeki, lontano dagli obblighi dell’accoglienza e della simpatia pro-turista e ci si può fermare a chiacchierare: con qualche parola smozzicata di inglese, con tanti gesti e sorrisi. E in qualche modo ci si intende. Si può discutere di tecnologia: macchine fotografiche e videocamere hanno sempre una certa presa e può capitare che qualche mercante abbia una passione segreta per il genere: compare da sotto un bancone una vecchia videocamera acquistata da un turista, si confrontano prestazioni, risultati, possibilità. Si può parlare di politica, e non si capisce fino a che punto il presidente-dittatore sia realmente amato, perché in pubblico se ne parla solo bene; e di “cose da donne”: figli e cibo soprattutto. Su tutti veglia la sagoma dalle Moschea di Bibi Khanim: dicono che la sua rovina sia iniziata il giorno stesso in cui finalmente fu terminata, però è ancora in piedi. E’ la sua maledizione, dicono, la maledizione di Bibi Khanim, la moglie più giovane e più amata dell’imperatore Amir Timur, Tamerlano il Grande. La sposa volle costruirgli qualcosa di imponente, ma scelse l’architetto sbagliato: capace e creativo, ma anche giovane e belloccio, pare. E mentre Amir Timur combatteva in terre lontane, i due giovani si innamorarono. O forse la giovane Bibi fu solo un po’ avventata nel concedere un bacio, chiesto affinché l’architetto concludesse i lavori in tempo per il rientro dell’augusto sposo. Comunque sia andata, Amir Timur non la prese bene; mentre il giovanotto si involava grazie a un provvidenziale paio d’ali, si racconta, la povera Bibi venne murata viva nel suo mausoleo, e c’è chi ancora tenta di scoprirne il luogo esatto.
Qui riposa Tamerlano
Visti da qui, i vicoli dietro la Moschea di Bibi Khanym – con le bancarelle di spiedini arrosto (shashlyk) e il fumo grasso che si alza verso un cielo di smalto, gli anziani coi pastrani tipici e i giovani che li salutano riverenti portando un mano sul cuore – sembrano appartenere a un altro mondo: fatto di leggende, di commercianti avventurosi e di valorosi condottieri. Come Amir Timur. Stroncato da una polmonite durante una campagna in Kazakistan, fu sepolto a Samarcanda per caso: la neve bloccava tutti i passi per la natia Shakhrisabz, dove lo aspettava una semplice cripta. Invece riposa a Guri Amir, dove una lapide di giada verde scuro giace sotto una volta ricoperta di lapislazzuli e oro. Con una piccola mancia si può scendere nella cripta e cercare fra le semplici lapidi di pietra: è facile trovare quella giusta: ha la stessa posizione di quella al piano superiore. I resti di Amir Timur riposano qui, nella quiete di una cappella sotterranea che ricorda certe chiese romaniche, dove tutto è pietra serena e pace. Passa un fremito, sa di passioni e grandi battaglie; o forse è solo una romantica suggestione. Fuori, la magia di Samarcanda sale col buio. Il vecchio quartiere un po’ fatiscente dietro Guri Amir, con i suoi giardini nascosti da muri anonimi, si anima delle voci dei bambini che vanno a giocare sulla piazza, proprio davanti al mausoleo. C’è una perfezione, in questo niente, che prende alla gola. Fa desiderare, per un momento, di restare.
La tradizione dice: sposarsi giovani e far figli subito
Nel piccolo giardino della moschea c’è un albicocco che fa ombra a un antico leggio di pietra un po’ sbilenco. Le donne ci strisciano ancora sotto, chiedendo la grazia di un figlio; qualcuno scuote scettico la testa, ma c’è poco da ridere in un Paese in cui – a nove mesi dal matrimonio – le madri degli sposi iniziano a reclamare un nipotino. Qualcuno si ribella: si sposano giovani, appena ventenni e decidono di aspettare. Qualcun altro attende invece di essere economicamente indipendente prima di sposarsi, sceglie di vivere in una casa propria ma poi vuole subito un bambino, per recuperare il tempo perduto. Ma nella maggior parte dei casi si segue la tradizione: matrimonio giovane e figli subito. Ci si conosce da ragazzini, oppure ci si occhieggia nei larghi viali che circondano l’università: praticamente la via dello struscio di Samarcanda. Si imparano altre lingue, inglese soprattutto, e si cerca di lavorare nel turismo, un settore su cui il governo sta investendo molto. Le minigonne di Tashkent sono lontane, forse, ma lo sono anche le intemperanze religiose della valle di Fargan. Anche in questo nuovo Uzbekistan, che cerca il proprio posto in Europa, Samarcanda sembra stare nel mezzo.