Sportivi sedentari e meno

Se invece si parla di “praticare uno sport” durante un viaggio, lasciamo perdere. Si dà infatti il caso che alla faccia di tante proposte dei dèpliants, di italiani che vadano in giro per il mondo a mettersi in mutande e maglietta per correre dietro a un pallone o zompare giù da una rapida, ce ne sono invero pochini (salvo qualche giocatore di golf). Almeno appetto ai turisti nordeuropei, che durante una vacanza amano anche smaniare e muoversi. Perché gli italiani, se sportivi (attivi), il tennis o il ciclismo o il calcetto, preferiscono praticarselo a casa loro, con gli amici, nelle pause o finito il lavoro quotidiano. In viaggio, invece, niente sport (salvo le rare eccezioni di chi nei Villaggi Turistici “si rompe” e qualcosa deve pur fare) le ferie sono sacre: spiaggia e famiglia, o discoteca e sesso. Una prova? Fosse anche Ferragosto, puoi trascorrere ore in un aeroporto italiano, ma morire che vedi un vacanziere con in mano una racchetta da tennis o altro arnese denotante che il partente va a svolgere una attività sportiva.
Viaggi, dunque, la mia invenzione, “per andare a vedere uno sport”. Che furono molti, oltre, beninteso, al solito “dio” Calcio: Tennis, Formula Uno, Motociclismo, Ippica, Ciclismo e ça va sans dire, le Olimpiadi. Tante belle trasferte che mi permisero di arricchire vieppiù la mia conoscenza del mondo e pure di vivere appaganti esperienze giornalistiche. Da Fuji, Giappone, raccontai per un quotidiano sportivo – che casino “a quei temp” dettare il pezzo ai dimafonisti – come James Hunt fregò il Mondiale di F1 al ferrarista Nicky Lauda, che se la fece sotto guidando sotto un diluvio. Da Maceiò, Brasile, altro casino, in una precaria sala stampa ricavata sotto una tenda, fianco a un inzuppato stadio del tennis, per commentare una sonora quanto ingloriosa “paga” presa in una semifinale di Coppa Davis. Non sarò immodesto e quindi ritengo che possa anche spettarmi qualche merito per aver inventato i Viaggi Sportivi (cosa non s’ha da fare per poter girare il mondo).
Calcio, boxe e taekwondo, ogni pretesto è buono

Ebbene sì, organizzai viaggi per assistere a partite del Calcio corrotto (e mollai tutto perché la vicenda dei biglietti stava diventando più sporca del lecito, poco prima che su una tribuna del Bentegodi di Verona apparisse lo striscione dei tifosi bianconeri “Juve puttana ti vendi alla Ventana”, che era poi il tour operator della Vecchia Signora, pensa tu). Ma, più nobilmente, condussi anche gente sulle orme del barone De Coubertin, ad “andare a vedere le Olimpiadi”. In questi casi, non disponendo (se mai posseduti) abbondanza di denaro, né intendendo rischiare soldi per prepagare i biglietti della Boxe piuttosto che quelli del Taekwondo o del Volley, lasciavo che quelli della Cit (carrozzone di Stato, a loro gli fregava poco di rischiare la lira, che non era la loro bensì di Pantalone) lanciassero i viaggi; dopodiché, non interessati più di tanto (giusta la nota massima che la lepre corre più veloce del cane perché corre per sé, mentre Fido corre per il padrone) i poco motivati manager del tour operator romano (che anni fa ultimò l’agonia posseduto dalle FFSS) mi mollavano i “pacchetti” (che detenevano in esclusiva ma gestivano senza entusiasmi) e io li piazzavo senza problemi. (05/05/10)
(Continua. La seconda parte sarà online il 12 maggio)
Le battaglie per i “tickets”

Fosse solo per l’aurea massima “Ubi Maior…” e per la già dichiarata divina importanza del Calcio, la narrazione dei Viaggi Sportivi cominci dunque dallo sport “balompedico” (così lo chiamava il grande Mago Helenio Herrera). E sia subito precisato che, per organizzare trasferte in occasione di una partita di pallone, più che una buona capacità professionale o un sagace marketing, era necessario un eccellente fiuto e/o abilità nel reperire i biglietti (detti anche “preziosi tagliandi” prima che gli stadi finissero squallidamente vuoti). Non parliamo poi se l’avvenimento era costituito da un torneo con più partite, tipo un campionato mondiale. Roba da andare fino in America a cercare e cuccare i tickets. Una volta negli States, a Los Angeles, facendomi scortare fino all’aeroporto da un “bestiùn” di negrone della polizia privata, onde non venir rapinato di decine di migliaia di dollari di biglietti nascosti nelle mutande. Il secondo blitz americano mi spinse invece a 3600 metri sul livello del mare, roba da Indiana Jones, in Bolivia, a prelevare biglietti comprati mediante congrua mazzetta slungata a un funzionario delle locale federazione calcistica. Ma sulle federazioni pallonare preferisco glissare; il loro ricordo continua a crearmi incubi. Non parliamo poi di quanto mi accadde per la finale di Coppa dei Campioni, Amburgo-Juventus, 25 maggio 1983, ad Atene (che gioia! tirai su un po’ di lira spennando i drughi bianconeri e in più la ciliegina di vederli perdere grazie a un celestiale goal del caro Magath all’ottavo del primo tempo!).