Venerdì 19 Aprile 2024 - Anno XXII

Sul Sinai dove il tempo si è fermato

Carla e Cristina Rovelli, rispettivamente madre e figlia, hanno iniziato a viaggiare spinte dalla voglia di avventurarsi attraverso montagne, foreste, oceani, praterie sconfinate dal Medio Oriente all’Asia, dall’America all’Africa. Due diverse generazioni che si raccontano in “Siamo andate dove il tempo si è fermato”, Sonda editore

Ascesa al Monte Sinai
Ascesa al Monte Sinai

 

L’UOMO DELLA MONTAGNA

Penisola del Sinai, 2001 di Carla

 

La magia di una notte in Medio Oriente, durante un’ascensione sul monte Sinai, fa riemergere il ricordo lontano di un incontro con un uomo, un grande alpinista, il cui esempio riuscì a infondere la forza necessaria per trasformare il corso di due vite.

 

LA MONTAGNA SACRA

È notte fonda. Le luci del villaggio si scorgono lontane. Lasciamo alle nostre spalle le alte e severe mura del monastero, dietro la montagna la luna proietta la sua bianca luce sulle cime più alte della catena di fronte creando giochi di luci e ombre. È uno scenario bellissimo e irreale. Avanziamo a passi lenti e regolari per permettere al cuore di mantenere un battito normale; solo così, anche senza soste, arriveremo in cima senza problemi. Un passo dietro l’altro, un ritmo cadenzato ed ecco… affiora un ricordo di tanti anni prima quando, per la prima volta, vidi la montagna.

 

TRA NEVE E DESERTO

… La neve era scesa lenta e silenziosa tutta la notte e aveva steso una coltre bianca e immacolata anche sulle pendici del monte. Attorno a noi tutto era splendente, fiori di neve candidi e arabescati rapivano la nostra attenzione. Sotto di noi il paesino i cui piccoli tetti sparsi e ordinati creavano un paesaggio candido che ci faceva pensare al Natale, al presepe. Regnava il silenzio. Poi di colpo un tonfo sordo ruppe l’incanto, poi di nuovo scese silenzio. Un altro tonfo, poi un altro ancora. Cosa poteva essere, dei passi forse… no, non era possibile, l’intervallo tra un tonfo e l’altro era troppo lungo. Ancora non sapevo che quel tonfo avrebbe per sempre cambiato la nostra vita.

 

Continuiamo ad avanzare nell’oscurità interrotta soltanto dalle deboli luci delle nostre torce che ci aprono il cammino. A tratti un verso gutturale esce dall’oscurità davanti a noi. Lontano una luce intermittente ci segnala, forse, la direzione da seguire. Ed ecco apparire delle ombre, il suono prolungato si fa più vicino: sono beduini e cammelli tutti raggruppati. «Volete salire? Noi accompagnare».

«No, molte grazie».

E proseguiamo. Ci seguono insistenti poi, di nuovo silenzio. Il mio pensiero ritorna a tanti anni prima…

 

Ci guardavamo attorno indecise sul da farsi: non avevamo mai visto un rifugio e in paese ci avevano detto che non era lontano, ma la neve era tanta e il sentiero sparito. L’indomani saremmo partite ed era un peccato perdere l’occasione….

La copertina del libro di Carla e Cristina Rovelli
La copertina del libro di Carla e Cristina Rovelli

Dietro a noi il soffio frusciante del fiato dei cammelli ci accompagna, lontano il profilo oscuro del passo si staglia nel cielo appena più chiaro; una lunga fila di lumicini in movimento tradisce la presenza di escursionisti che, a poco a poco, spariscono dietro la montagna. Dietro una curva, dove prima la luce era intermittente, ora nell’oscurità, scorgiamo delle fievoli luci e alcune ombre in movimento.

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Siamo arrivati al primo posto di ristoro sulla montagna gestito dai beduini Gebel; alcuni di loro vivono su questa montagna e assistono coloro che salgono a trascorrere la notte sulla cima, inattesa dell’alba; altri vivono giù a valle, coltivano la terra o guidano i turisti sulle montagne circostanti. Discendono da mercenari Valachi, che l’imperatore Giustiniano fece venire dalla Romania nel sesto secolo per servire e proteggere i monaci del monastero che abbiamo incontrato a valle quando siamo partiti.

 

Proseguiamo senza fermarci e, superato il passo, appare sotto di noi un’ampia vallata inondata dal chiarore della luna rimasta fino a quel momento nascosta dietro alla montagna. Un’altra luce intermittente occhieggia sopra di noi nella zona rimasta nell’ombra. Sempre con passo lento e regolare, raggiungiamo alla fine un’altra area di ristoro dai negozietti spartani, stracolmi di bottigliette e lattine colorate.

 

Salutiamo i cammelli e i loro padroni perché, da qui, iniziano i gradini; chi ha percorso il tragitto a dorso di cammello ora può contare solo sulle proprie gambe. Lontano, più a valle, un’altra fila di luci in movimento risale la montagna. Attraversiamo un breve canyon chiuso fra rocce strapiombanti ed eccoci nel piccolo villaggio beduino. Il tempo trascorre lentamente, i gradini irregolari si fanno sempre più faticosi e il mio respiro è piuttosto affannoso. Mi fermo e sciolgo dello zucchero in bocca; qualche attimo di sosta perché il battito torni alla normalità, un’occhiata fugace per individuare nel buio i miei due compagni, e sopra di me per tentare di scorgere la vetta e poi via, prima che i muscoli delle gambe si raffreddino. Voci, luci e finalmente raggiungiamo la cima; sulle rocce alcune ombre sono avvolte nelle coperte, qualcuno sorseggia una bevanda calda. Proseguiamo verso la chiesetta e, dopo esserci liberati dalla biancheria fradicia, ci addossiamo alle sue mura per ripararci dal freddo e dal vento gelido. In questo piccolo angolo di silenzio assoluto alcune ombre sono distese, avvolte nei sacchi a pelo.

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Calo il berretto di lana sugli occhi lasciando scoperto solo uno spiraglio per respirare. Spalla a spalla con i miei compagni, attendiamo l’alba. Un brivido gelido mi scorre lungo la schiena a contatto con il freddo muro della chiesetta, ma l’emozione mi allontana da tutto e i pensieri scorrono. Il freddo, il buio, la stanchezza mi danno un po’ d’angoscia e mi fanno ricordare gli anni tristi vissuti in città dove, in quei giorni di tanti anni prima, saremmo dovute ritornare presto.

 

Avevamo lasciato la città per una vacanza di cinque giorni, ci eravamo permessi una piccola sosta uscendo quasi in punta di piedi, ma con sollievo, da un mondo grigio, da una vita familiare difficile e da una situazione senza spiragli. Ci eravamo concesse una piccola sosta con un po’ di timore, perché si apriva a noi un mondo nuovo di cui non conoscevamo l’esistenza. Mia figlia, allora tredicenne, era appena uscita dall’ospedale e aveva bisogno di una convalescenza serena per poter riprendere gli studi e una vita finalmente normale. Avevo perso la speranza, non avevo fiducia ne verso il mondo ne verso il mio prossimo!

Sul Sinai dove il tempo si è fermato

Vivevamo lontano da tutto, non conoscevamo nessuno e non parlavamo con nessuno. Non avevo ne un’idea ne la forza per uscire da quella situazione e reagire. Poi, per caso, sentii parlare della montagna, di questo luogo bellissimo. Trovai un indirizzo, feci una telefonata e via. Avevamo trascorso cinque giorni girando per il paesino deserto, senza altra presenza oltre alla mia, di mia figlia e di due cani randagi che ci seguivano scodinzolando; volli loro subito bene, perché capivo benissimo la loro solitudine molto simile alla nostra. Ammiravamo estasiate le cime innevate dei monti, ci immergevamo nel silenzio e in quella pace. Ora eravamo lì, in alto sopra il paesino, un po’ sollevate e un po’ tristi per l’imminente ritorno. Qualche rumore ci giungeva ovattato da lontano, e poi sempre quel bum… bum… quel tonfo si avvicinava sempre più, ma non si scorgeva nessuno…

 

Il sonno sta prendendo il sopravvento quando qualcosa accanto mi scuote dal torpore, sollevo il berretto ed ecco i primi chiarori dell’alba. Una luce debole filtra nella semioscurità, lasciando delle deboli macchie di luce sulle rocce. A est, lento e pigro, il sole si nasconde dietro fitte coltri di nubi. Poi eccolo, stupendo, sorgere piano piano, come fosse posato sopra un gigantesco trono di nubi, spandendo e immergendoci in una luce dapprima rosata, poi sempre più viva. Intorno, imponenti e meravigliose, le rocce delle montagne si colorano di fiamma. Il sole, ora sempre più alto, è una visione stupenda, e nel silenzio qui, sulla Montagna Sacra del Sinai o Horeb, mi pare di sentire la voce possente di Dio che si rivela a Mosé, scelto come messaggero per il suo popolo, per ricevere le Tavole della Legge con i dieci comandamenti.

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Sotto si estende il deserto del Sinai. Ai piedi della cima settentrionale del Gebel Musa o Montagna di Mosé, la pianura chiamata Al-Raha («il Riposo») mi fa pensare al luogo dove gli ebrei, usciti dall’Egitto diretti verso la Terra di Canaan, dopo aver attraversato le zone desertiche di Sin e di Refìdim, si accamparono in attesa di Mosé.

 

È un momento magico, guardo mia figlia seduta su una roccia, la mano stretta in quella del marito. Sorride felice. Col cuore colmo di gioia, il mio sguardo vaga lontano sulle catene di montagne che si susseguono perdendosi in lontananza. La natura si risveglia, qua e là piccole creature saltellano in cerca di briciole, sono stupendi e teneri con il loro piccolo petto tondeggiante che va dal rosa carminio al bruno rosato. Una specie di ciuffolotti estremamente rara che vive, oltre che nel Sinai, solamente in Cina, in Marocco e nel Tagikistan.

 

Il sole è ormai alto mi alzo e saltello da una roccia all’altra. Scatto alcune foto sul Gebel Katerina, un massiccio cristallino di 2.641 metri, la cima più alta della rocciosa punta meridionale della Penisola del Sinai dove si narra la leggenda- un angelo avrebbe trasportato il corpo di santa Katerina, martirizzata ad Alessandria dall’imperatore Massimo, che la donna avrebbe tentato di convertire. Il panorama si estende dal golfo di Suez al golfo di Aqaba.

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