Un giorno porsi la mia la carta di credito per pagare un acquisto di sei dollari nel museo dell’isola e quando la transazione andò a buon fine (tre quarti d’ora più tardi), la donna che era alla cassa si alzò per abbracciarmi, felice ed emozionata per aver completato l’operazione, la prima di quel genere in tutta la sua seppure non breve vita. Me ne stavo seduto sul prato che dominava le scure rocce vulcaniche, con il blu dell’oceano che si tendeva verso il vuoto più assoluto, e immaginavo come sarebbe stato venire su quest’isola nei panni di un missionario, speranzoso di convenire gli indigeni ma destinato ben presto a perdersi e abbandonarsi a un comportamento completamente diverso.
Le tre croci brillavano nella notte. La stravagante utopia di Erewhon di Samuel Butier, pensavo, era l’anagramma proprio di questo Nowhere, questo non luogo.
Mia madre, in compenso, sembrava ormai la top model Kate Moss, il che mi avrebbe presto costretto a trasformarmi rapidamente nel suo innamorato Johnny Depp ai tempi in cui distruggeva la suite del Mark Hotel di New York. Da un lato facevamo scorpacciate di stranezze e scoperte – sull’Isola di Pasqua anche un pezzo di legno era un oggetto raro – ma dall’altro era evidente quanto ci stessimo rinsecchendo.
Alla fine, le mie peregrinazioni mi portarono a scoprire una possibilità foriera di grandi speranze: un edificio dipinto di blu, con bandierine tibetane all’esterno e commoventi citazioni di Pablo Neruda scribacchiate sulle finestre. Due hippy cileni avevano deciso di venirsene in questo luogo remoto, prendendosela con calma, e ora offrivano un menù a base di won ton fritti e vero caffè “non istantaneo”. Ci unimmo alla lunga schiera dei rivoluzionari anti-Nescafe per scoprire come fosse quel caffè non istantaneo.
Alla vigilia del nuovo millennio – allorché avevo deciso di mostrare a mia madre l’inizio del nuovo secolo proprio in un posto come questo, caparbiamente aggrappato al passato- la sensazione di totale isolamento era più intensa che mai. Lunghi sentieri su cui avrei potuto passeggiare per ore, sentendo nelle orecchie soltanto il sibilo del vento sferzante… Pochi turisti (per lo più anziani) seduti ai bordi della minuscola piscina di una casa in stile ranch, trasformatasi per noi in un ‘hotel’ degno del nuovo secolo… La mia stanza era completamente spoglia – nemmeno una sedia, un appendiabiti, niente minibar – e perfino, per chiamare al telefono mia madre, nella stanza accanto, dovevo prima passare attraverso un operatore, immancabilmente assente.
Eravamo venuti sull’Isola di Pasqua per uscire da un secolo che conoscevamo fin troppo bene e lasciarci sprofondare in qualcosa che sembrava appartenere al passato collettivo, a qualcosa di totemico e ancestrale, a tutto ciò che associavamo alle vere icone di questo luogo, i grandi moai di pietra, che di notte, secondo le credenze locali, se ne vanno in giro per l’isola. Non avremmo mai pensato di doverci presto rammentare che un uomo non può vivere solo di ciò che vede.
Per farla breve, a mia madre era venuta fame e a Nowhere, un posto che quasi nessuno visita, è possibile che troviate ben poco da mettere sotto i denti. La nostra piccola sala da pranzo (affacciata sul vuoto e su un silenzio di cui si poteva sentire l’odore e il sapore ogni volta che si guardava dalla finestra) offriva un unico menù, per colazione, pranzo e cena. Si cominciava con la vera specialità dei Mari del Sud, carne suina in scatola, e si proseguiva (almeno così sembrava) con altra carne suina in scatola.
Il tempo, lo spazio e la realtà cominciarono a scivolare chissà dove mentre mia madre aggrediva un piatto di riso bollito e, al tavolo vicino, un tipo con la tradizionale acconciatura tribale raccontava a una troupe televisiva cilena che Rapa Nui stava perdendo la sua presa sull’eternità.
Nei giorni che seguirono, silenziosi e solitari, mi divenne sempre più facile domandarmi se ognuno di noi fosse davvero destinato a capitare prima o poi in un ‘non luogo’ dove nessuno vuole venire, dove non c’è cibo e dove chiunque intorno comincia a sentire una grande malinconia per qualsiasi altro posto al mondo, una realtà fatta di patatine fritte dei McDonald’s e del vocio cacofonico delle caffetterie Starbucks, in pratica di tutto ciò da cui eravamo fuggiti. Il generico villaggio globale che ci eravamo lasciati alle spalle ora riluceva nella nostra memoria come il luogo perfetto in cui mia madre, ovunque l’avessi portata (Angkor, Luxor, Kyoto), era riuscita a trovare tacos, spaghetti e perfino il caffè decaffeinato.
“Andare a Nowhere” cominciava a sembrare un modo per abbracciare l’assenza e la privazione di tutto e diventare il nulla.
Il nuovo millennio arrivò, finalmente, con una fantasmagoria di fuochi d’artificio, mentre i 3000 abitanti dell’isola si riunivano in cima a un’altura che dominava l’oceano.
Le telecamere arrivate dal Cile infilarono anche Hanga Roa (la capitale di Rapa Nui) nella collana della grande parata globale di Capodanno, voltando una nuova pagina del calendario collettivo dell’isola e portandola in un nuovo secolo. Il giorno seguente, però, al mio risveglio, Rapa Nui non possedeva ancora una sola scuola superiore e la collina su cui andavo per godermi lo spettacolo dell’oceano era sempre deserta come l’orizzonte che avevo davanti a me. Prendemmo un aereo dell’Air New Zealand e volammo a Papeete, quel porto di Tahiti deturpato e sovraccarico di qualsiasi cosa: ciclopici centri commerciali, bambini che fanno i capricci e ristoranti fast-food per famiglie. Al cinema davano Austin Powers; in un ristorante cinese qualcuno imitava Sinatra in My Way; bande errabonde di adolescenti sognavano e parlavano di qualsiasi altro luogo sulla terra.
Cominciavo a sentire che il pregio di essere stati a Nowhere era che aveva fatto sembrare irresistibile qualsiasi altro luogo e qualsiasi altra cosa.