Domenica 28 Maggio 2023 - Anno XXI

Mandalay, il centro dell’universo

Amarapura foto di Jakub Hałun

Reportage di viaggio in un paese ancora difficile come la Birmania. Aldo Pavan, giornalista e fotoreporter che collabora anche con noi ha a lungo viaggiato in Estremo Oriente. Nel suo libro “Birmania. Sui sentieri dell’Oppio”, pubblicato da Feltrinelli Traveller descrive la sua esperienza e il suo disincanto laggiù, a cominciare da Mandalay, la capitale del Regno

Il mio disincanto comincia da Mandalay, in questa primavera caldissima e umida che appiccica la camicia alla pelle, senza un filo di vento a increspare la superficie dell’Irrawaddy, divenuto di bronzo fuso, immobile e dorato. Mi siedo a un tavolo unto, in una sala da tè sull’Ottantesima Strada, una folla di biciclette parcheggiata davanti. Le tazzine sono sbeccate e sporche. Il cameriere le ha pulite versandoci un goccio di tè e passandoci sopra, garbatamente, un dito. Prenderò la città di Mandalay come punto di partenza, primo passo di questo viaggio verso levante. Partirò da qui, dalla città imperiale considerata il “centro dell’universo” da re Thibaw, ultimo sovrano birmano, spodestato dal colonialismo di sua maestà britannica. Qui si trovava la sua reggia da favola, distrutta nel 1945, in un’ultima, acerrima battaglia, inglesi contro giapponesi, poco prima della disfatta totale nipponica. Oggi di quello splendore rimangono solo i ricordi e le pagine dei viaggiatori di allora. Narrazioni e racconti hanno il valore di scarna archeologia della memoria dell’ultimo mito vivente birmano, del Re dei Mille Elefanti, del Signore dell’Ombrello Bianco. Lasciata Mandalay rincorrerò sulla carta geografica nomi evocativi di quel regno: Amarapura, Sagaing, Inwa, Pagan (o Bagan, come il regime vuole si dica oggi) e quindi salirò verso l’altopiano dei principi shan passando per il Lago Inle e Taunggyi, per arrivare fino a Kengtung, centro nodale di quell’angolo bollente di mondo chiamato Triangolo d’Oro, terra di etnie ribelli, armate per desiderio di secessione o, forse più semplicemente, per sete di ricchezza, con le mani nei traffici della droga.

Da qui uscirò in Thailandia, a nord di Chiang Rai, dove è stato aperto un museo dell’oppio a beneficio dei turisti, con tanto di patetica vista sul Mekong nel punto esatto in cui si incontrano i confini di tre stati: Birmania, Thailandia e Laos, il centro geografico della terra del narcotraffico. Armato di penna e macchina fotografica, raccoglierò storie e ruberò immagini del mondo birmano che sta scomparendo. Sono istantanee dalla vita breve ormai, a volte esotiche e consolanti, che riportano una terra orientale da favola.

Ma non è così: un filtro falsa la realtà e nasconde le zone d’ombra diffondendo una luce impropria. Questo scampolo d’Oriente ancora integro è stato messo in ginocchio dalla crudeltà della dittatura, da un manipolo di militari che ha imbavagliato la democrazia. Sotto gli occhi dei visitatori si consuma un dramma quotidiano che vede affrontarsi la mitezza del popolo e la ferocia dei governanti. E una sconvolgente opposizione tra bene e male che affonda le radici nella storia della Birmania. È come se yin e yang si stessero spietatamente fronteggiando. L’ultima tragedia è iniziata nel 1962, data del colpo di stato orchestrato da un ex impiegato delle poste, il generale Ne Win. Poi, la giunta militare, dopo aver represso a raffiche di mitra le proteste studentesche del 1988, ha annullato i risultati delle libere elezioni, che davano la vittoria all’opposizione rappresentata dalla Lega nazionale per la democrazia. Il parlamento non è mai stato riunito e i golpisti si sono autoproclamati restauratori dell’ordine: State Law and Order Restoration Council, e cioè Slorc. Alla Birmania è stato cambiato nome, e glien’è stato dato uno “meno imperialista” dell’inglese Burma: Myanmar. Ora qui, nella sala da tè, vedo due occhi a mandorla dalla pelle troppo bianca e un filo di barba lunghissimo, un anello d’oro e una camicia bianca, uscita da poco dalla lavanderia. Occhiali da sole, rigorosamente Ray-Ban, incollati alla faccia. Pantaloni stretti, taglia da ragazzo.

Questa faccia gialla è cinese. Non indossa il longyi, quella specie di gonna che portano gli uomini in Birmania, retaggio di antica memoria, tocco di eleganza anche per i maschi, obbligati a fare passi corti e svelti, fasciati nelle gambe. Il cinese sfoggia scarpe di cuoio nere e non ciabatte infradito, come tutti. E una divisa la sua, segna l’appartenenza a una tribù dalle radici recenti, quella dei nuovi ricchi, dei dollari, dei traffici leciti e meno leciti. Si imbocca di you tiao, snack cinesi fritti in un olio dal colore dubbio. Forse aspetta qualcuno e sbircia verso la porta. Scruta anche me, lo straniero.

I cinesi sono una cartina al tornasole. Si moltiplicano e proliferano là dove si possono fare affari. A Mandalay giungono sobbalzando sulla Burma Road, la strada riaperta di recente che arriva dallo Yunnan passando per Lashio. Sono apparsi gli ideogrammi nel quartiere Kywezun, sulle portiere dei taxi, perfino sui graffiti che insozzano i muri. Dai birmani i cinesi sono tollerati, li guardano con rispetto perché riescono a fare i soldi. Ed è così anche riguardo agli wa, ai kokang e agli shan, e alle altre etnie ribelli dell’est del paese, che si sono arricchite con la droga e che lavano i soldi sporchi nei commerci, investendo in alberghi e supermercati.

I nuovi ricchi gareggiano per grandiosità con banche, ministeri e istituti statali. Soldi in cemento e calcestruzzo, in barba a ogni canone estetico, anche a quelli orientali. Opere kitsch, cineserie fin troppo cinesi, con draghi e sputafuoco, con svolazzi, surplus di neon, ornamenti luminescenti esageratamente spocchiosi a fianco dell’eleganza delle case birmane di tek, criteri stilistici antichi, purtroppo snobbati. E insegne in inglese del tipo rampante con ripetizioni all’infinito di Jenny, House, Pizza, Jeans, Food, Fashion. Prestiti dalla lingua inglese per la Broadway birmana dei commerci. Il business alimenta la dittatura. La giunta militare è più che mai aggrappata al potere e sempre meno disposta a rinunciare ai privilegi. In Birmania, però, è raro vedere divise verdi nelle strade.

MandalayNiente carri armati o autoblinda, o posti di blocco. La vita quotidiana scorre normalmente, basta non parlare dei misfatti del partito unico. Come dice un proverbio locale: “Quando quattro birmani s’incontrano, puoi star certo che ci sono almeno cinque spie”. Tacere e andare avanti. Chi non ha obbedito all’imperativo del regime è stato trattato alla stregua di un cospiratore. Lo dicono le scritte sui muri: “Chiunque sia sedizioso, indisciplinato e abbia atteggiamenti negativi è nostro nemico”. La conferma viene dai terribili dossier presentati dalle associazioni internazionali e dall’Onu stessa, che accusano il governo di essere colpevole di esecuzioni sommarie, violenze contro le minoranze etniche, evacuazioni in massa della popolazione, violazione sistematica dei diritti civili e politici. I prigionieri politici in carcere sarebbero circa millequattrocento. I turisti, quando arrivano a Rangoon (chiamata Yangon da quando i militari hanno cambiato il nome di una serie di località birmane), si accalcano di fronte al fascino della pagoda Shwedagon. Ma c’è un altro luogo importante che meriterebbe di essere visto. E una villa immersa nel verde, in University Avenue, dove, dopo dieci anni di carcere, ha vissuto agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, laurea in Scienze politiche a Oxford, figlia del generale Aung San, l’eroe dell’indipendenza assassinato nel luglio del 1947, un anno prima della nascita della nuova Birmania, finalmente libera dal dominio coloniale inglese e dall’occupazione giapponese. Soprannominata “la pasionaria d’Oriente”, insignita del premio Nobel per la pace nel 1991, Suu Kyi è leader della Lega nazionale per la democrazia, ultimo baluardo contro lo Slorc. In lei, la Gandhi in longyi, spera tutta la po-polazione. Nelle sue mani è il futuro di una Birmania migliore. Amitav Ghosh, uno dei maggiori scrittori indiani, ha conosciuto Aung San Suu Kyi nel 1980 a Oxford.

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