Dopo anni di peregrinazioni ed esplorazioni solitarie, munita di una Leica e di un taccuino, Monika Bulaj racconta in un libro il suo viaggio nella terra degli afgani, alla ricerca dell’anima di un popolo martoriato, devastato da anni di occupazione militare e di guerra.
Dal confine iraniano a quello cinese: Balkh, Panjshir, Samangan, Herat, Kabul, Jalalabad, Badakhshan, Pamir-e Khord, Khost Wa Firing, spostandosi a bordo di bus, taxi, camion, a dorso di cavalli e yak, la Bulaj ha vissuto a stretto contatto con gli abitanti di questi territori, ha diviso con loro il cibo, il sonno, la fatica, la fame, il freddo, i sussurri, le risa, la paura.
Attraverso luoghi dove la donna è schiacciata dal tribalismo, i bambini rischiano la vita per andare a scuola e gli abitanti stanziali vagabondano per salvarsi, ecco cieli sconfinati e una terra così inondata di sole che bisogna rifugiarsi nell’ombra per ridare un senso alla luce, nur (in arabo e persiano).
Le straordinarie fotografie, accompagnate da appunti di viaggio e riflessioni, contraddicono molti cliché, svelano un mondo inatteso e complesso che l’Occidente perlopiù ignora: l’Afghanistan non è solo un Paese oscurantista, ma è anche una terra di poeti, culla del sufismo, di un Islam tollerante, che lascia spazio a una società dignitosa, rispettosa di riti e tradizioni, dove “una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento di chi arriva da lontano è vissuto come una benedizione”.
In un territorio vastissimo, dove si alternano realtà urbane a deserti dai colori abbaglianti e montagne innevate, Monika Bulaj, con l’occhio attento della reporter che si lascia permeare senza preconcetti da realtà diverse e lontane, trova la luce nascosta dell’Afghanistan, focolai di speranza nei luoghi più inattesi, nel fondo più nero della disperazione.