Non dormivo mai la notte prima. Troppa era l’eccitazione: il mattino dopo si partiva per le vacanze. E non era tanto per il viaggio, neanche 40 minuti da Mestre a Jesolo. Forse era per la mole dei bagagli che, dovendo stare via per un mese in quattro, erano praticamente un trasloco. Adesso, per un week end in vespa, basta uno zainetto e il viaggio è ancora più breve di allora: ma quanto piano correva, papà, la nostra macchina sovraccarica?
La prima emozione era davanti all’areoporto, simbolo ai miei occhi del viaggiare vero e proprio. Mi sarebbe piaciuto entrarci, prima della vacanza, ma con una borsa dietro la testa, il televisorino in bianco e nero sulle ginocchia, la radio fra i piedi, un minimo di saggezza l’avevo già allora e tacevo. E allora adesso è facile, invece, mettere la freccia e far girare la vespa direzione Marco Polo. Ci passo davanti e non mi fermo. Vedo gente carica di valigie: dove correte tutti? Io vado a Jesolo, la spiaggia per eccellenza del nordest, seconda solo a Rimini nell’Adriatico, sei milioni di presenze l’anno. Vado a metterci anche la mia, di presenza, dopo quasi vent’anni. Venite?
La coda del sabato mattina, andando verso Jesolo. Ci sbatti contro appena dopo Portegrandi, ma con la vespa basta un leggero scarto a sinistra e la lasci lì, ferma, la coda, a far da cornice di metallo al Sile. Succede tutti i week end. E la domanda è sempre la stessa: ma chi glielo fa fare? Che cosa spinge i pendolari del sole e del sale a passare la metà delle ore trascorse sul bagnasciuga dentro l’abitacolo della propria automobile? Sfilando i veicoli uno a uno, fermi, finestrini abbassati, mi ascolto la hit parade del momento, frammenti delle canzoni più ascoltate, sempre le stesse, ripetute all’infinito, come ogni estate. Quelle canzoni che poi in autunno riascoltarle significherà far sgorgare fuori la lacrimetta di nostalgia per due occhi azzurri, una capigliatura rosso tiziano, un topless dirompente.
Il pontile – la diga, la chiamavamo noi – quella in linea dritta dritta con la chiesa di Piazza Trento, era il nostro territorio. Con un amico avevamo addirittura inciso i nostri nomi su una delle assi di legno, proprietari improbabili della zona finale di quel luogo. Le hanno cambiate, le assi, più nuove, più pulite. Ci hanno sfrattato, Piero, non è più casa nostra, qui.Quante storie, quanti amori (Mara di Sondrio, Stefania di Mestre, Krisia di Anversa, Sonia di Strasburgo, Marina di Mestre, Luisa di Cessalto e la sua omonima di Brescia, Paola di Jesolo…) consumati più o meno platonicamente sopra quella scomoda striscia di legno. Ci piazzavamo lì al mattino, genitori sulle sdraio, e staccavamo la sera per poi ritornarci – quando andava bene, quando l’amore era meno platonico – la notte.
Ora non si può più, un’ordinanza del sindaco leghista e amico fraterno – così dice – di Haider, vieta di dormire sulla spiaggia, una della capitaneria di fare il bagno al chiaro di luna e conseguente falò. Dei vigilantes vestiti di nero pare scoraggino chiunque. Niente passeggiate romantiche e altro per le perfette vacanze jesolane di fine millennio, più caste, più pulite. Apparentemente.
Togli la spiaggia ai ragazzini e gli dài più discoteche, più gelaterie. Devi farli spendere, spendere, spendere. Gli togli il bagno e i falò e gli dài alcool e robaccia. Dal pontile guardo la striscia infinita di orrendi condomini e alberghi che fanno da spina dorsale alla spiaggia. Riconosco quelli dove ho trascorso svariate estati del mio passato. Tutti lindi, perfetti. È come se fosse rimasto tutto uguale però un po’ migliorato e al contempo tristemente omologato: le sdraio sono tutte uguali, gialline e bianche, struttura metallica. Anzi, non più sdraio ma lettini.
Una volta erano in legno e ogni condominio, ogni albergo aveva le sue di un determinato colore. Il tuo settore, il tuo posto lo rioconoscevi da lontano. Ora è tutto più pulito, ma tutto più uguale. Ordinato. Ovvio. Passeggio dietro gli ombrelloni, su quella striscia piastrellata che ha tolto spazio agli spontanei campi di bocce di un tempo. Copiata da Rimini, forse anche nei colori. Comoda, comunque. Gli stabilimenti si succedono l’un l’altro.
Devo sempre trovare qualcosa da contare, a ogni viaggio in vespa. Ma lungo questo percorso c’è poco da contare. Anzi no. Me le ero dimenticate. Eccole lì. Sulla sinistra. Ci sono quelle da contare. Come facevo da piccolo, quando scandivano la lenta marcia di avvicinamento verso la meta. Ca’ Redenta, Ca’ Speranza, Ca’ Favorita, Ca’ Fertile, Ca’ Feconda, Ca’ Florida: dal finestrino quelle antiche case coloniche erano il conto alla rovescia di ragazzini ansiosi di mare. Una sorta di litania da recitarsi nell’attesa, evocativa, piena di chissà quante e quali storie (che cosa succedeva nelle stanze di Ca’ Feconda? E a Ca’ Fertile? Com’erano le donne di Ca’ Florida?).
Ora sembrano essere tutte abbandonate. La più sgangherata è, guarda un po’, Ca’ Speranza. Alcune sono imbrattate da scritte che inneggiano al Fronte Marco Polo. Quando andavamo verso Jesolo, per quindici anni consecutivi, una delle tappe obbligatorie era il Bar Bianco a Caposile, appena svoltati a destra. Prima c’era la trattoria Bedin, che io mi ero convinto fosse proprietà del mediano dell’Inter di Herrera e non ho mai chiesto conferma a nessuno per paura di essere smentito.
Subito dopo c’era il Bar Bianco, dove ci si fermava a comperare latte e formaggio. Arrivati lì, svoltata la curva, ormai era fatta, dritto davanti a noi c’era Jesolo, la spiaggia, il mare. Chissà se c’è ancora il Bar Bianco, mi chiedo mentre la vespa ormai è a Caposile e vedo un’indicazione che per Jesolo dice dritto. Ho un dubbio, la mia mente di camminatore comincia a pensare come non dovrebbe, troppo lenta mentre corro, anche se soltanto sopra una vespa. Così imbocco la strada nuova e del Bar Bianco e di Bedin nulla saprò. Eccola la prima differenza evidente, la strada nuova. Più scorrevole, breve, veloce. Chissà perché, ogni volta, ogni viaggio in vespa, c’è sempre un momento come questo, di piccolo smarrimento, dovuto alla lentezza del riflettere e arrivato davanti a un’indicazione, sbaglio sapendo bene, in quel momento, di sbagliare. La consapevolezza dell’errore. Con il gusto dell’imprevedibile che l’errore porta con sé.