Giovedì 25 Aprile 2024 - Anno XXII

Roma, non basta una vita

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“Chi ha rivelato Roma ai romani è stato un non romano, un veneto, Silvio Negro, capo della redazione romana del Corriere della Sera e vaticanista di fama europea”, scrive Stefano Malatesta nell’introduzione alla nuova edizione del libro “Roma, non basta una vita” (Neri Pozza), l’opera più nota del giornalista considerato l’inventore del vaticanismo moderno. Vi proponiamo alcuni stralci di questo volume tutto da assaporare

Roma nella luce ocra del tramonto
Roma nella luce ocra del tramonto

Incredibili sono le sorprese che Roma riserba anche a chi crede di cono­scerla. Sembra un paradosso, ma in questo demolizioni, allargamenti, ripuliture, aiutano moltissimo, perché rompono con il richiamo della novità all’abitudine dell’occhio, senza dire delle scoperte vere e proprie, come è ad esempio la tribuna di San Carlo al Corso che finora nessuno aveva visto. Alle volte un isolato è andato via fra tre strade, un trian­golo di case cariate e corrose: scopri una piazzetta nuova ch’è romana e non ti pare, con una luce insolita, con le tinteggiature fresche, natural­mente il Colosseo rimane il Colosseo, e non è da credere di poterne tro­vare inaspettatamente un altro a lato di una prospettiva inusitata; ma quanti edifici di nobile e romanissimo carattere, anche se talvolta di se­condaria importanza, non saltano fuori il ogni passo appena uno vada per le strade con occhi nuovi?
Capita spesso di dare un’occhiata a un monumento celebre o a un palazzo ben conosciuto, di darci un’occhia­ta rapida per vedere un particolare, per sillabare una iscrizione. E su­bito quel lieve cambiamento dell’obiettivo ti rivela preziosi e insospet­tati elementi, ti scopre lì accanto edifici minori ma squisiti che tu, reso cieco dall’abitudine, non avevi mai visti; il monumento principe stesso improvvisamente ti esce fuori dall’inquadratura stereotipata del luogo comune per acquistare immediatezza e umanità.
Allora veramente co­minci a capire che cosa rappresenti questa città nella storia del mondo, allora la continuità della sua storia e la grandezza e unicità del suo de­stino ti appaiono evidenti fatali: le tue piccole trepidazioni stesse non hanno più senso. Qualcosa è in essa che supera le generazioni e i secoli, li plasma e ricrea secondo il suo genio, ed è veramente intangibile per­ché al di sopra della comune ragione degli uomini. 

Colore di Roma

Roma, non basta una vita

Se il Tevere è biondo, come deve essere, le case di Roma sono rosse; ma non è il rosso di Venezia, intenzionale e vivo, che piaceva tanto a De Musset. Questo di Roma è molto più corposo e ricco e nello stesso tempo evasivo e ambiguo, tanto che c’è perfino chi lo chiama giallo.
Può ricordare da vicino il sangue rappreso e il mattone crudo oltre che quello bruciato, ma non sarà mai un cremisi o un vermiglio; può essere terra di Siena o arancione in tutte le loro sfumature, ma può arrivare anche all’ocra, un’ocra senza luce, terrosa e spenta, un colore ottuso, suscettibile di così tante gradazioni che quando l’osservi sulle prove di imbianchino, fatte a strisce sovrapposte sull’intonaco di una casa, rimani stupito nel constatare quanto sia prolifica la famiglia delle ocre e sensibile l’occhio dei loro manipolatori.
E poi c’è l’oro rugginoso del travertino cotto dal sole, quello per intenderci della facciata di San Pietro, c’è il rosa cinerino dei graniti degli obelischi, c’è il noce spento delle imposte variato all’infinito dal pennello del tinteggiatore, ci sono le mille altre gradazioni che il marmo, l’intonaco, il legno assumono sotto il gioco continuo della pioggia e del sole, e ne vien fuori un tono unico e fuso, riposato e potente, ch’è il colore di Roma.
Dirlo rosso senz’altro è la soluzione meno impropria, ma se ti fermi all’inizio di quella nobilissima vecchia strada ch’è via del Babuino e guardi lì in fondo l’obelisco di piazza del Popolo, t’accorgi subito quanto quel termine sia povero e insincero per questo color di Roma che l’inconscia funzionalità delle generazioni ha tirato fuori dalla tavolozza dei secoli per farsene uno schermo contro la cruda luce d’un cielo ch’è sempre sgombro e profondo, un cielo che a giugno diventa di piombo. Corot diceva che il sole di Roma non ha niente a che fare con quello degli altri paesi. Ora il rosso delle case romane è tutto in funzione di quel sole; perciò la pioggia manca tra loro d’ogni intimità e dolcezza, le rende livide e sconce, e la nebbia, se mai si fa vedere, è un non senso.

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Roma, non basta una vita

Questi toni forti e opachi sono una necessità del clima, una legge di natura; e può averci benissimo la sua parte anche il temperamento d’una gente che non ha mai avuto vocazione alla grazia, fantasia per la delicatezza. A ogni modo le insulae della Roma di Augusto e di Traiano erano dipinte così e le case romane di ogni secolo sono sempre state così fino a quando gli architetti di casa, già abituati a insegnare al mondo, non si sono scoperti afflitti dal complesso d’inferiorità e hanno cominciato a diffidare di quanto avevano sempre avuto sotto mano e ad aiutarsi con le labili teorie e le riviste di fuori.
Non valse a guarirli neanche la beffa del botticino condannato a non prender mai colore, il grande infortunio del monumento a Vittorio Emanuele, abbacinante montagna di zucchero che si alza al cielo entro un panorama ch’è tutto una variatissima macerata sequenza di rossi e di grigi. Così la Roma più recente, quella dei quartieri periferici, oggi ostenta con la stessa convinzione pinnacoli svizzeri e terrazze africane, verande sconfinate e tutti i colori dell’arcobaleno.
Ma il sole di Roma è eterno e non ha fretta. Non temete, prima che gli imbianchini perdano per sempre i segreti del mestiere, gli architetti riscopriranno anche il nostro sole, troveranno che anche l’ombra, sì, ha i suoi vantaggi e che Roma ha un suo colore funzionale e perciò eccellente. E le nostre case, rosse o gialle che siano, saranno salve.

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