“Amiche sian le voci a lui d’intorno/e prodighe le piogge dell’estate;/sia tenera la sera e dolce il giorno,/sia pieno il cielo in le nottate.”
Intorno alle ricette minuziosamente descritte in rima e poi spiegate dettagliatamente negli ingredienti e nel procedimento, si costruisce una storia attinta dalla tradizione o dal repertorio classico, mescolando i ricordi familiari, le leggende popolari e i miti del mondo antico (Polifemo e Ulisse). Il tutto condito con lo scanzonato senso di leggerezza, di invettiva velata, di doppio senso dove il ventre erotico e il ventre gastrico a volte si confondono e si sovrappongono, ma in queste composizioni di ricette e sonetti mangerecci – come li chiama l’autore – c’è un utilizzo sorvegliatissimo e ricercato del verso, utilizzando le possibilità che gli offre la tradizione letteraria italiana dalla Commedia dantesca ai poemi cavallereschi rinascimentali, piegati ad un contenuto leggero che passa in rassegna tutti gli strumenti e tutti i prodotti alimentari che la terra salentina e quella friulana (a Gorizia ha trascorso un ventennio della sua vita) possono offrire.
E’ dalla storia antica che Gianni Seviroli, poeta e cantastorie, inizia il suo percorso culinario nelle pietanze che già si vedono fumare sul nostro desco, salvo dimenticare – come fa Nerone – l’abbacchio nel forno e provocando così l’incendio di Roma, attribuito poi per comodità ai cristiani. Non poteva certo dire che era colpa del suo forno! Fino alla resurrezione di Cristo dovuta oltre che alla sua santità, come Figlio del Padre, anche ad una briciola della pastiera che la madre aveva portato come dono funebre ai piedi della sua tomba da consumare secondo le usanze del tempo.
Ironia e ambiguità delle parole e dei significati, Seviroli innesta su un retroterra dotto e fantastico la sua pruriginosa visione della vita, ridendo di tutto come sanno fare i veri poeti e cantastorie del mondo.