Forse non si è mai abbastanza pronti per un viaggio in India. O forse è cosi quando si parte da una quotidianità frenetica in una capitale europea. Sono partita da Roma diretta ad Agra, con scalo a Doha, correndo come al solito tra i mille impegni che una città disorganizzata come Roma complica maggiormente. Sapevo che sarei arrivata nel cuore della notte, con il rischio di perdere il secondo volo per Agra, ma come spesso capita in queste situazioni si va e basta, confidando nella buona sorte. Infatti, l’aereo della Qatar Airways è arrivato puntualissimo, pieno di turbanti colorati, donne indiane in abiti lunghi e occidentali in minigonna.
Due film a bordo – a proposito, in italiano c’era la serie di Gomorra, inquietante modo di rappresentare il nostro Paese – ed un indiano accanto a me, convinto del fatto che a Roma non ci sia traffico. Chiaramente, ho contestato. Non sapevo che, nel viaggio di ritorno, sarei stata io a dire che a Roma non c’è traffico.
In India ciò che accade è un dono dell’universo
Dopo le esperienze vissute, seppur in pochi giorni, in India cambia la percezione di qualunque cosa esista, compreso il traffico romano. E’ tutto cosi estremo che non si può ritornare come si è partiti. Quindi, se decidete di andare in India, siate pronti: se si è aperti e in sintonia di frequenza, è un viaggio che muove qualcosa dentro l’anima. E niente sarà più come prima. Forse “niente” non è la parola giusta: in concreto la mia vita procede come prima ma è completamente cambiata la percezione che ne ho. Si arriva stanchi in India, dopo due voli cosi lunghi, è vero ma non troppo.
In India i ritmi cambiano velocemente e il caos nelle strade, tra mucche sacre, motorini con a bordo tre – quattro persone, scimmie, tuc tuc che strombazzano in continuazione in un vortice incredibile di colori e odori fa davvero perdere la concezione del tempo e dello spazio. Intanto, il tempo: per una come me che non ama le albe, con l’orologio biologico spostato da sempre in avanti, la prima sorpresa è stata fare tutto all’alba, in modo naturale. E’come se cambiasse il bioritmo, tutto ciò che accade arriva come dono dell’universo. A cominciare dalla prima alba, al Taj Mahal.
Cosa vedere ad Agra: L’infinita bellezza del Taj Mahal
Ho viaggiato in decine di Paesi sparsi quasi in tutto il globo eppure penso che il Taj Mahal si sia subito conquistato il primo posto come luogo interiore, indimenticabile. Quando il grande portone si è aperto davanti ai miei occhi, mi sono trovata rapita in un sogno. Era là, immobile, in fondo al viale di acqua, nella sua immensa bellezza che si imponeva nella nebbia del mattino. Credo che niente mi abbia emozionato cosi tanto nei miei viaggi. Nel Taj Mahal il quadrato rappresenta il mondo materiale, la cupola circolare (che poggia su un basamento ottagonale composto da otto archi) la perfezione della divinità; la forma ottagonale della struttura è punto di incontro tra materia e spirito.
Dato che l’ottagono è forma intermedia tra il quadrato ed il cerchio, a rappresentare l’uomo, punto di giunzione tra i due mondi. È davvero difficile descrivere le sensazioni di infinto amore e bellezza che il Taj Mahal hanno fatto vibrare in me. Non è “solo” una delle Sette bellezze del mondo, patrimonio Unesco ecc, no è molto di più. È la rappresentazione fisica di un qualcosa che un tempo ci è appartenuto.
Agra, simbolo dell’amore eterno: “una lacrima di marmo”
Se mai si ha avuto la fortuna (o sfortuna) di provarlo, lo si riconosce subito, senza parole. È l’amore nel senso più immenso che possa esistere, atemporale, aspaziale, infinito. È la rappresentazione del for ever che tutti da adolescenti abbiamo sognato e scritto sui nostri diari e che, da adulti, è diventato un tatuaggio segreto sul cuore, eterno, incancellabile, nascosto alla vista di tutti. Ma comprensibile solo a quei pochi fortunati che hanno visto brillare nei propri occhi lucciole di eternità, anche se solo fino ai primi giorni di maggio. Tagore, scrittore, filosofo e drammaturgo indiano lo definì “una lacrima di marmo” e forse non c’è un modo migliore per definire il perduto amore che continua a vivere dentro il cuore.
Ventidue anni impiegò Shah Jahan per far si che gli architetti giunti da ogni dove traducessero in linee e forme a lui piacenti i propri pensieri di amore per la sua perduta donna. Ventimila persone, tra cui un architetto italiano, Geronimo Veroneo e mille elefanti lavorarono fino al 1654 alla perfetta geometria delle forme, alla ricerca quasi ossessiva della simmetria di quello che sarebbe diventato patrimonio UNESCO dal 9 dicembre 1983, inserito dal 2007 fra le nuove sette meraviglie del mondo.
Un monumento che brilla di luce propria anche senza luce
Nonostante ci entrino milioni di persone e nonostante sia illuminato al suo interno solo da una lampada posta agli inizi del XX secolo dal viceré inglese Lord George Nathaniel Curzon (si deve a lui l’opera di restauro iniziata nel 1899 e terminata nel 1908), il Taj Mahal brilla di una luce propria, anche senza luce. È l’architettura più commovente che io abbia mai visto.
Per dare corpo a quell’amore che ormai vibrava solo dentro di sé, il sultano fece arrivare il marmo bianco da Makrana, il diaspro dal Punjab, la giada e il cristallo dalla Cina, i turchesi dal Tibet, i lapislazzuli dell’Afghanistan, gli zaffiri dallo Sri Lanka e la corniola dall’Arabia.
Gli architetti lo accontentarono, creando con le pietre preziose un sottile gioco di luci e ombre. Fece incastonare ventotto diversi tipi di pietre preziose nel delicato marmo bianco che sarebbe stato la tomba della sua Mumtaz, in modo tale che il Taj potesse vibrare ancora di sfumature nella luce del giorno, come il suo amore.
Bisognerebbe andare al Taj Mahal in tutte le ore del giorno per poterne ammirare i le vibrazioni: il delicato marmo a seconda della luce, assume una colorazione bianca, rosa o dorata.
È l’amore che pulsa ancora, dopo millenni, in ogni ora di ogni nuovo giorno. Shan Jahan morì poco tempo dopo la fine della costruzione del Taj Mahal, dopo essere stato deposto dal figlio ed imprigionato. Riposa accanto alla sua amata.
La meraviglia dei giardini: uno spazio che apre al silenzio
È difficile parlare finché si è dentro il Taj Mahal ma è difficile parlare anche quando si esce nei giardini divisi in quattro parti (hanno la tipica forma di charbagh mughal), con due canali che si incrociano nel mezzo e specchiano la bellezza del “castello di aria. È un luogo che apre lo spazio al silenzio, interno ed esterno. Una volta usciti, si sente l’esigenza di passeggiare lentamente, per uscire dal sogno.
A poca distanza c’è il Taj Park, dove gli indiani vanno a meditare guardando il Taji Mahal. Ci vado anche io. Da qui la vista è bellissima: per arrivare al bianco del marmo gli occhi devono prima percorrere il verde dei prati e delle piante. Meditare, con lo sguardo oltre i giardini. Mi fermo qui per oggi. Domani andrò al Forte, a due chilometri e mezzo da qua. (1 – continua)
Agra 3. Magia dell’India: amore per la natura e gli animali
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