Lo facessi a mano, anche le virgole si arriccerebbero nello scrivere del Barocco leccese… Uno stile d’essere non tanto nella struttura quanto nel decoro. Un donare al concreto la giusta ariosità pomposa. La baldanza del sofisticato alla semplicità del sobrio e squadrato rigore architettonico. E così, ariosa e con pensieri più effimeri, che iniziano a radicarmisi nel cuore alimentandosi di mitologia e leggenda. Mi sento anch’io, mentre stropiccio i sandali sul selciato lucido e lastroso del centro storico della città…
Sarei già pronta a trasferirmi in uno di quei monolocali incastonati tra i tetti piatti e livellati. Dall’alto sorvegliano lo stretto dedalo di viuzze che se ne scappano dalla folla del cardo e del decumano. Si perché, ma non per primi, di qui i romani ci sono passati, lasciando tracce importanti. Tracce che sono emerse solo all’inizio del secolo scorso sono emerse durante la costruzioni di edifici di, ahimè, ben altra reminiscenza storico-politico-architettonica.
Lecce e il suo barocco
L’anfiteatro romano mostra solo un quarto di sé. Casoni squadrati del fascio si appoggino sui suoi fianchi, per gonfiare il petto ospitando banche, municipi e sorreggendo tronfi tricolori nell’immediatezza delle piazze circostanti.
I personaggi tragici cedono il posto alla tragedia della mentalità umana. All’ombra dei colonnati romani, una volta pantere e fiere erano obbligate a difendersi da gladiatori e urla violente; oggi ronfano sornioni i gatti, per nulla disturbati dal metropolitano scorrere del tempo.
Barocco, uno stile modellato con la pietra leccese
Il cuore della città pulsa candido ed immacolato nel lindore della sua pietra. Una pietra morbida e calda che plasma chiese e balconate, statue e doccioni, cariatidi e capitelli. Gli artisti qui, dal tardo 1500 trovarono pane per i loro denti e occasione di mordere questa tipica roccia calcarea per dar vita ad un vero e proprio racconto ad immagini. La presenza di un materiale così friabile e facile all’“alveolizzazione”, rende la creazione di Lecce e il barocco dei suoi edifici un’opera ancora più preziosa. La sua bellezza così intensa è drammaticamente destinata a subire la decadenza del tempo e l’intervento ostile dei fenomeni atmosferici.
Una bellezza effimera e formale, ma che custodisce segreti, leggende, illustra la storia e racconta di miti, santi, alleanze e contrasti. Tra le meraviglie del Salento, considerata terra di mezzo, accarezzata dallo Ionio e dall’Adriatico, fino a qui sono arrivati Greci, Romani, Turchi, Bizantini, Spagnoli, Francesi… e Veneziani, ovviamente: fianco a fianco della lupa, simbolo della città, a volte compare anche il solito leone alato della Serenissima, come a ricordare che non c’è porto di mare che non sia stato calcato dalle sue zampone.
I Santi patroni della città tra feste e sagre
Non solo popoli e aristocrazie, ma anche una moltitudine di santi, locali e no, si contende il titolo di patrono della città. A seconda della fazione politica o religiosa in auge al momento (Celestini, Francescani, Benedettini, Orsini, Aragonesi… ) un santo cedeva lo scranno dorato dell’altare maggiore all’altro; o perché considerato “più di casa” (come Sant’Oronzo rispetto alla più pagana Santa Irene di origini elleniche); oppure perché più apprezzato dalla curia del momento (come i Santi Fortunato e Giusto). Di tutti, comunque, Napoleone non tardò a sequestrare reliquie e opere, dal momento che ai tempi, tali ordini religiosi detenevano, inoltre, un considerevole ed importante “patrimonio spirituale”.
Sopravvivono tuttavia sagre, feste e ricorrenze che puntellano di fede e celebrazioni ogni mese dell’anno (o quasi): c’è sempre un santo da festeggiare, una patrona da esaltare in processione o una ricorrenza da ravvivare con fuochi d’artificio, canti e bancarelle!
Ecco perché, mi dico, questa terra è così ricca di meraviglie e di sole: qui i santi sono onorati con continui “sacrifici”. Impossibile possano restare sordi e indifferenti alle preghiere e ai desideri dei loro devoti e affezionati fedeli: l’economia cosmica di scambio è assicurata! … alla penombra del sacro zampettano ragni e tarante che rischiano, però, con il loro morso, di scardinare equilibri e scompaginare giuste maniere, facendo emergere il lato più ancestrale e dionisiaco di queste terre solatie.
La Pizzica e la notte della Taranta
La parte ombrosa, tra un palazzo barocco e una piazza, emerge irruenta in tarda estate: basta che le prime note di una pizzica squarcino la cortina di silenzio e omertoso apparire, che la ragione si perda e tutto trovi origine e motivo d’essere nel mito! Ma un mito così ancestrale da essere radicato dalla notte dei tempi in ogni gesto, parlata, ritmo, usanza e comportamento! Così effettivo da plasmare da allora la realtà di adesso. Così assoluto da rendere semplice ogni spiegazione di noi. Talmente vivo da ritrovarsi in ogni nostra morte e riaccompagnarci alla successiva rinascita!
Così anch’io, questa notte, verrò trascinata verso un nuovo avvenire e sorgere di guarigione. Inutile tentare ulteriori spiegazioni: meglio accontentarsi di sapere quanto basta, in fondo ognuno lo sa, lo sente, è così: una danza che cura, un lasciarsi morire per ritrovare il ritmo, il tuo, che è quello che fa vibrare della giusta frequenza e ballare, ballare, fin quando non ti si spurga il veleno dal corpo e, soprattutto, dal cuore e dalla mente!