“How many roads must a man walk down, before you call him a man?” (Bob Dylan)
Potrà essere curioso, ma l’idea di questa rubrica sulla Storia del camminare è nata all’interno di una Land Cruiser, un mostro a quattro ruote – sarebbe riduttivo chiamarla automobile – che divorava asfalto polveroso alla velocità di cento chilometri all’ora lungo le highway dell’outback australiano. In quel viaggio stavo accompagnando, come assistente, Antonio Politano, giornalista e fotografo freelance, per un reportage sulle tracce di Chatwin che avrebbe poi dato vita a un blog per Repubblica.it e a una mostra intitolata “ A.bc” esposta prima al Palazzo Ducale di Genova e successivamente al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Quella mattina avevamo fatto una levataccia per fotografare prima dell’alba Uluru, il celebre monolite dai colori cangianti, quando il sole non era ancora sorto dietro la roccia, ma già creava un’aura azzurra attorno ad essa. Fatte le foto, partimmo di fretta diretti verso la “vicina” Alice Springs (in Australia cinquecento chilometri da percorrere in una lingua d’asfalto, doppia corsia, larga cinque-sei metri, sono considerati come una nostra passeggiata domenicale) dove avevamo un appuntamento alle undici. Un’ora dopo aver lasciato l’Uluru-Kata Tjuta National Park, eravamo nel bel mezzo del famoso nulla dell’outback australiano. Il grande monolite ormai era solo un ricordo che distava più di ottanta chilometri di bush australiano e altrettanti ne avremmo dovuti percorrere per incrociare il primo centro abitato: Mont Ebenezer Roadhouse, una delle centinaia di fattorie-pompadibenzina-bazar-bar-ristorante-motel, in poche parole oasi senza palme, che rendono possibile la vita a noi occidentali in mezzo all’immenso nulla australiano.
Hippie scalzi nel deserto
Erano più o meno le sei e mezza. Stava albeggiando. La macchina correva sulla Lasseter Highway. Il motore era l’unica musica d’accompagnamento di questa nostra erranza. La radio, ovviamente, non prendeva e noi, per tutto il viaggio, non siamo riusciti a fare un cd per rendere più gradevoli i nostri frequenti e lunghi spostamenti. Dopo un immenso rettilineo, si parò davanti a noi una curva – evento eccezionale per queste strade – voltammo e trovammo un gruppo di ragazzi che stava occupando il bordo nella nostra corsia. Erano sei, forse sette. Tutti vestiti hippie. Camminavano sul bordo dell’asfalto, saltando, ballando e cantando. Non avevano niente con loro. Solo i vestiti che avevano addosso. Tutti avevano i piedi scalzi.
Antonio piantò i freni, la macchina oscillò perdendo velocità. Ci guardammo. Che facciamo: ci fermiamo? Non lo so. Ma li hai visti quelli? C’è una luce bellissima. O loro o l’appuntamento ad Alice Springs. Lo sapevamo che se ci fossimo fermati non saremmo ripartiti in tempo. Cose da fotografi. Antonio alzò il piede dal freno e lo distese su quello dell’acceleratore. Continuammo ad andare. Giusto il tempo di un ultimo sguardo dagli specchi retrovisori e poi sparirono nel nulla geografico del ricordo, anche loro come Uluru.
Tra le tele degli aborigeni
Ad Alice Springs arrivammo in orario. Avevamo un appuntamento con il direttore di un’associazione che aiutava l’inserimento sociale degli aborigeni. In poche parole li facevano dipingere tutto il giorno (“tanto a loro piace” parole del direttore) in cambio di cibo e di un luogo riparato dove stare. Ci avrebbero pensato i bianchi a vendere le loro opere d’arte. Ovviamente ai neri briciole, pardon la percentuale, ai bianchi tutto il resto.
Non mi piacque quel posto. Mi sembrò un misto fra un ospizio per anziani e un centro per ragazzi disabili; con la differenza che, in entrambi questi posti, le persone venivano trattate meglio. E mi piacque ancor meno il fatto che vedere questo schifo ci aveva fatto perdere l’occasione di parlare con quegli hippie che camminavano da soli in mezzo al deserto. Ma che ci facevano là? Come avevano fatto ad arrivare là. Soli. Senza macchina. A piedi. O meglio, a piedi nudi sull’asfalto. Antonio aveva guadagnato una buona foto di una signora aborigena che stava dipingendo una delle innumerevoli tele che avrebbe intitolato “My land”.
Io invece mi dannavo l’anima per non esserci fermati a parlare con loro. Da dove erano sbucati fuori? Cosa stavano facendo? Come avevano intenzione di camminare sull’asfalto rovente appena il sole l’avrebbe riscaldato? Tutte domande perse nel vuoto che si aggrappavano al ricordo per cercare una risposta.