Appena scesi dall’aereo a Providencia (novanta chilometri a nordovest da San Andrès, venti minuti di volo con un turboelica a un’altitudine di mille e cinquecento metri, in nave otto o nove ore, due volte alla settimana) aumentano le speranze di chi viaggia sognando il mito dei Mari del Sud. In effetti il minuscolo aeroporto El Embrujo (una striscia di terra tra mare e scure cime, ritagliata tra abbondante vegetazione, un bungalow di legno, caos all’arrivo dei soli due o tre voli giornalieri) anticipa la diversità tra le due isole dell’arcipelago.
Due isole (Riserva della Biosfera) datosi che Santa Catalina altro non è che un isolotto con duecento abitanti collegato con un corto ponte di legno a Providencia (ma quantomeno vanta una roccia marina con un profilo vagamente somigliante a una testa umana: ecco pertanto, ti pareva, la “Cabeza de Morgan”, high lit del tour dell’isola in barca, half day, 40 US Dollars).
Diversa da San Andrès, ma più esotica e intrigante, la ex Providence certamente lo è: anche qui sbarcarono i determinati puritani inglesi all’inizio del Seicento e non dissimili furono le altre migrazioni salvo gli Indios “nicaraguensi”. La differenza è marcata, non fosse che per l’assenza di botteghe e spacci vendenti impensabili gioielli, infradito e mutande griffate. Diversa da San Andrès e forse un filino simile ad alcune isole polinesiane per le modeste dimensioni: un perimetro di soli diciotto chilometri con bella strada costiera, la poca popolazione (cinquemila abitanti), un “arrecide” (reef) di trentadue chilometri quadrati (secondo gli isolani il terzo per estensione nel mondo, forse non è vero) e soprattutto una mini catena montuosa (trecentosessanta metri la massima altitudine) che costituisce la dorsale verticale dell’isola, creando ombre e chiaroscuri sulle acque della laguna.
Il “melting-pot” delle lingue
Ancor più palese è poi, a Providencia, il fenomeno dell’idioma locale, il “creole” parlato – soprattutto in famiglia – dalla quasi totalità degli abitanti, per certo da tutti i nativi. “Don’t cross the road” sento urlare da una nonna a un bambino in procinto di attraversare la strada; mi giro e invece di una signora british in vacanza incrocio lo sguardo con una attempata donna di colore, nata e vissuta a Providencia, isola colombiana del Caribe, da secoli de “Habla Castellana” (dicono oltretutto che lo spagnolo parlato dai colombiani sia il migliore del sud America). E non si tratta solo di inglese parlato: nel principale centro abitato dell’isola, sulla balconata della Alcaldìa o Ayuntamiento (la Casa Comunale, beninteso in stile vagamente Tudor con i muri rivestiti di legno dipinto in bianco e nero) è chiaramente scritto (ovviamente in caratteri gotici quasi si fosse sotto il Big Ben) “The Municipalità at Providence and Santa Catalina Islands”.
Fortunatamente, a parziale lenimento dell’orgoglio nazionale colombiano, una iscrizione posta sotto il vicino monumento al generale Santander (eroe dell’indipendenza, con il celeberrimo Libertador Bolìvar) recita: “Las armas nos dieron la independencia, las leyes nos daran la libertad”.