Il romanzo della dannazione, della fine di ogni speranza. Il morso del leopardo si legge d’un fiato. Travolge il lettore con un ritmo intenso che trabocca di amore e di rabbia.
Lasciato dal suo grande amore, ubriaco, il protagonista corre per la città senza meta, poi si ferma e piscia (senza rendersene conto) su una macchina della polizia dentro la quale sono seduti due poliziotti. Nessuna parola di scusa impedisce la violenza brutale (il razzismo, gli insulti, le botte), il protagonista perde il controllo, uccide un poliziotto e si ritrova in prigione, tra sangue, vomito e urina.
È in prigione che il lettore trova il protagonista e da lì assiste a un lungo monologo rabbioso, un disperato canto interiore di un uomo braccato come un leopardo in gabbia.
I pensieri si accavallano ai ricordi, il presente al passato: la lotta di un nero di banlieue che vuole combattere la maledizione di essere nero. Un ragazzo che studia, che si innamora (di una bianca) e vive un amore pulito e pieno di speranze. Un ragazzo africano che sente risuonare nelle orecchie le parole del nonno e offre così al lettore il ritratto di un’Africa reinventata, sublime, idillica, nobile.
“Un po’ di indulgenza per favore! Colpevole o no, la vittima qui sono io!”
È giovane, è nato in Congo, è cresciuto in una banlieue difficile di Parigi, è iscritto all’università e ha buoni voti. È innamorato e felice. Poi Mireille se ne va, lui commette l’irreparabile e ha inizio la discesa all’inferno.
Un lungo grido di rabbia e di passione, in cui la memoria rincorre brandelli di vita passata, mescola volti e parole, intreccia la voce degli avi alle carezze di Mireille, la violenza delle banlieue all’incanto del primo amore.
Un urlo disperato, un monologo implacabile che travolge il lettore con la violenza di un fiume in piena.