Nella mia ormai trentacinquenne milizia giornalistica, oltre a dichiararmi (immodestamente) “esperto di turismo”, ho pure la sfrontatezza di proclamarmi (ancor più immodestamente) discreto conoscitore dell’enogastronomia.
E non mi fermo alla buona tavola del Belpaese. Penso pure di poter vantare, con estrema iattanza, anche buone cognizioni del “mangiare e bere” in Spagna. Se così non fosse, non avrei potuto scrivere un minidizionario gastronomico “italiano-spagnolo-italiano”, oltretutto valutato il giusto perché pratico e utile.
A ciò si aggiunga un minuzioso minitrattato sul “Jamòn de Pata Negra” (fantastico prosciutto iberico). Come se ciò non bastasse, non avrei avuto la pazienza di redigere una “miniGuida” segnalante più di cinquecento “posti dove mangiare in Spagna: ristoranti, bares de tapas, mesones, bodegones” da me visitati nel tempo.
Toccando “ferro”…
Considerato che cinquecento punti dove sfamarsi sono davvero tanti, commenterei che ho raggiunto questo minirecord “en solitario” grazie alla perseveranza, al piacere della curiosità e soprattutto alle capacità resistenziali dell’apparato digestivo, alias la salute.
Già. Un evviva alla salute e alla sua importanza, soprattutto se perdurante in un contesto coinvolgente il disordinato universo dei viaggi e le ancor più sregolate vicende dell’alimentazione (bravissimi dietologi di sé stessi, ad esempio, gli ispettori della Guida Michelin, professionalmente obbligati a mangiare una sola volta al giorno: ma quanto!). E di buona salute ne godo invero abbastanza e ancor prima di dichiararlo provvedo a toccare ferro, lasciando a spagnoli e anglosassoni la preferenza per il legno, “madera” o “wood” che sia, con il risultato che nel mondo tutti palpano scaramanticamente qualcosa, non si sa mai.
Buona salute dovuta a che cosa (oltre che al Fato quando non Fortuna)?
Mah, francamente non ne conosco i motivi, non saprei davvero chi o che cosa ringraziare. O meglio, un’idea, un sospetto lo coltivo da tempo e lo rendo pubblico. Forse forse, il non stare poi così male alla mia veneranda età (70 suonati) potrebbe essere merito di una alimentazione che mi ha visto privilegiare l’olio.
Dai patri lombi, l’olio come “amore”
E dire che il mio approccio all’olio non è stato dei più facili, per svariati motivi che definirei etnici, geografici, financo politici, nonché fisiologici ed economici.
Sono infatti venuto al mondo nel nord dell’Italia da un romagnolo e una piemontese. Ma mentre per il padre lughese il prezioso derivato dell’oliva poteva anche rappresentare qualcosa di non sconosciuto (tanti gli uliveti sulle colline tosco-emiliane, versante padano di quegli Appennini che costituiscono lo spartiacque gastronomico tra il Settentrione cucinante con il burro e il centro-sud del Belpaese nelle cui cucine impera l’olio; olio che per la madre Vej Piemont era considerato un commestibile quasi misterioso.
Mi riferisco, attenzione, all’olio di oliva originale, quello che oggi definiamo vergine o extra vergine e durante la guerra era venduto alla borsanera come “olio-olio”, parimenti al vero caffè (non un surrogato composto d’orzo o quant’altro similare proveniente dalle nostre colonie ormai già ex) che al mercato nero si chiamava “caffè- caffè”. Perché l’olio non poteva mancare nemmeno sulle tavole del Nord (si pensi solo al condimento dell’insalata) ma si trattava di un olio che (se rapportato a quello venduto oggidì) con le olive non aveva proprio nulla da spartire, provenendo da semi tipo il girasole o – ricordo, chissà se questa pianta esiste ancora, ancorché sotto altro nome – il ravizzone.