Cominciato (primo tomo) con una elegante cena in quel di Ronchi dei Legionari, proseguito (secondo tomo) nell’asburgica Gorizia con visita al castello e pranzo alla Locandiera, il Famtrip Stampa del Turismo del Vino è felicemente approdato nel Collio, nella cui capitale, Cormòns, lo scrivano riceve lezioni di viticoltura e di Frico (‘plat tipic furlan fat cul formadi’)
Si punta dunque verso Udine con gli amici della stampa estera ridanciani (dopo abbondante assunzione dei vini di Carlo di Pradis) non meno che frastornati allorquando – a Judrio, circa a metà strada tra Cormòns e la capitale del Friuli – la gentile guida comunica che fino al 1866 da una parte c’era l’Italia e dall’altra l’Impero asburgico di Austria-Ungheria; in effetti l’unione delle due corone avvenne l’anno dopo, ma è sempre meglio diffidare del lettore che “sta a guardà er capello”, dopodiché prende carta e penna e sogghigna perfidamente pregustando la gogna del cronista.
Confini “ballerini”
Il fatto è che gran parte dei miei “coèquipiers” arruolati dal friulano Turismo del Vino, provengono dagli Stati Uniti o dal Regno Unito (di Gran Bretagna e Irlanda, dizione esatta per l’eventuale suesposto lettore perfettino) e pertanto a questi miei neoamici risulta difficile capire come – nel corso dei secoli – i confini settentrionali del Belpaese siano stati sottoposti a una sorta di ballo di San Vito (quelli meridionali finiscono nel mare eppoi nessuno vorrebbe dei territori con gli ospedali che non lasciano scampo alla maggioranza dei pazienti ricoverati).
Se per un britannico è quasi impossibile comprendere il perché della citata “ballerinità” dei confini di un Paese (non solo perché isolano ma soprattutto per il fatto che dal 1066, William the Conqueror, l’UK non è più stato visitato da alcun straniero armato e in divisa, eppoi gli inglesi, dal ‘500 hanno sempre cuccato e mai dato) anche per un Yankee il fatto di prima prendere eppoi mollare non è poi così facile da metabolizzare. E il perché non è poi così difficile da spiegare. Una volta assicurati i loro confini “Coast to Coast”, gli eredi di Washington si son messi a fare shopping nel mondo e fatto salvo il Viet Nam, che però era “roba francese”, a periodici ritocchi “in perdita” di confine o a “ripiegamenti sulle posizioni prestabilite” – questo era il sinonimo di “ritirata” usato dai nostrani comandi durante la Seconda Guerra mondiale – non sono mai dovuti ricorrere.
Udine: da Odino o da Ottone?
E intanto siamo arrivati a Udine.
Nel descrivere le emozioni provate nel ritornarvi faccio subito sfoggio di grande cultura, segnalando che da qualche parte lessi che il nome Udine deriva da Odino (o Wotan, divinità principale del Pantheon nordico). Ma siccome questa mia chicca non è suffragata dalla “autorevole” Wikipedia (come un tempo lo era il quotidiano cairota Al Ahram, non c’era volta che il giornale radio non lo definisse tale) meglio la certezza del nome medioevale, Utinum, dato alla località resa più importante da un castello donato dall’imperatore Ottone II.
Divenuta veneziana (1420) Udine seppe mantenere una certa identità (un esempio, il dialetto, pardon, la lingua locale) nell’ambito degli interessi politici della Serenissima Repubblica, che con le province dell’entroterra – si era già ammirato il Leone Alato dominare l’ingresso del castello di Gorizia – quanto a sfruttamento e “prelievi”, mica scherzava; vedi le verdi distese della Carnia chiamate “i boschi di San Marco”, da cui il legname per le galere costruite nell’Arsenale.
Artisti lombardi in Friuli
Se l’influsso “venexian” è pertanto enorme (dalla piazza Libertà la visione dei Due Mori e della Torre dell’Orologio ti trasporta pari pari in piazza San Marco e all’orologio della chiesa di Campo San Giacometo dipinta dal Canaletto) si scopre però che anche l’umile apporto dei costruttori Lumbard (cominciarono all’epoca del romanico come tagliapietre poi divennero capomastri e infine architetti) ha lasciato a Udine buona traccia. E’ opera di Beniamino da Morcote (Lac de Lugàn, a un tiro di schioppo dall’oggidì “casinista” e corrotta Campione, ma un tempo culla dei Maestri Campionesi) la ristrutturazione (orrido termine moderno, ma sa tanto di “Loft”) della chiesa di San Giacomo (in furlàn Glesie di Sant Jacum).
Situata nell’omonima piazza (ex piazza delle Erbe e anche Giacomo Matteotti, ma per pochi) il tempio (eretto a fine ‘300) fu ben ridisegnato dal sullodato architetto lombardo (XVI secolo) ed è curiosamente noto per la chicca che da un suo balcone era officiata una messa, dando così modo al popolo del sottostante mercato di ripulire la coscienza testé lordata con bilance truccate o facendo la cresta sul conto.
Per finire, da Tiepolo al Pestà
Poco distante (sempre a proposito di artisti lombardi in trasferta nella friulana terra di castelli e terremoti) ecco i bei dipinti di Giulio Quaglio (Laino Val d’Intelvi, Como, 1694) nel Palazzo (Antonimi-Belgrado) alias della Provincia. Al lato, il Palazzo Arcivescovile con gli affreschi di Giovan Battista Tiepolo (che da Udine si trasferì a Madrid, sommo pittore di corte) visioni così belle che non posso abbruttire con la mia povera prosa: prenda il lettore un’auto o un treno e vada a vedere di persona questo ben di dio (e quanti “Ohhh” esclamerà nella Biblioteca Delfino).
“Imparate l’arte, la si metta da parte” (così recitava antàn un adagio ormai scomparso) si passi alla Udine bacchica e godereccia, alla simpatia dei suoi bar (all’esterno, un asse posto orizzontalmente serve per deporre il bicchiere di chi, servitosi al banco, esce in strada e fa quattro chiacchiere sorseggiando un bianco giusto; da queste parti il Crodino e il Sanbittèr non è che godano di molta e buona fama. Si lascia Udine dopo un macrobiotico shopping di Pestà (grasso di maiale, rosmarino, cipolla, lardo, salvia, sedano). Chi può escludere che i valori dello spirito non siano custoditi nel cartoccio di una salumeria (stavolta udinese)? Perché mai disperare?
Fine del 4° tomo (e un 5° – ahilui il lettore – arriverà, ma – ed eccolo esultare – sarà pure l’ultimo).