L’Editorpadrone Pietro mi fa: “Io non posso andare alla degustazione dei vini delle Tenute SalvaTerra, vacci tu”. E io (sempre curioso di sentire e vedere quel che succede nel mondo, non parliamo poi se lo scoop ha come obbiettivo una bottiglia di liquidi con gradazione alcolica over 12, meglio se trattasi di vino rosso, considerando il Bianco una bevanda sia pur con eccellenti eccezioni) al Pietro dico sì.
E giunto il giorno della degustazione mi ritrovo in un posto davvero giusto (e dico posto, non ne posso più di sentir dire location, sarà anche di gran moda, ma l’uso sfrenato di ‘sti modernismi etnici mi sta rompendo le balle). E spiego il mio entusiasmo sulla location chiedendo al cortese lettore: “Ha mai degustato un bicchiere di vino (e stavolta è proprio il caso di usare l’antico detto “In grazia di Dio”) in un arcinoto monumento milanese contenente tantissima religione, storia e arte? Sto parlando del Milano Wine Garden sito (precisa l’invito alla degustazione) nella cornice unica della basilica di Sant’Ambrogio dopodiché manca solo l’indirizzo, per la precisione Oratorio della Passione, piazza Sant’Ambrogio 15, Milano. Entri – soltanto un plurisecolare muro in cotto ti separa dal sagrato della basilica – e a sinistra noti un bar bacchico, poi c’è un giardinetto (e di lì alzi lo sguardo e ammiri il più consistente dei due campanili) in cui assaggiare quanto ammannito in un portichetto laterale o sorseggiare il vino suggerito da un sommelier, e infine ti ritrovi in una cappella, anzi, come precisato nel suesposto invito, in un oratorio che un tempo (e adesso dal 1° maggio al 30 settembre) invece di pii preti officianti messa col Vin Santo ospita enosacerdoti alzanti calici di (nel mio caso) Amarone, Valpolicella e Lazzarone.
Tenute SalvaTerra
Questi i vini che le Tenute SalvaTerra mi hanno invitato a degustare. E li ho degustati come si conviene a un antico scrittore turistico che non sarà certamente un raffinato enologo, tastevin, assaggiatore o quel che l’è, ma di sicuro, ormai, di vini se ne intende, fosse solo grazie a una pluridecennale praticaccia (facciamo quasi 65 anni) consistente in esperienze vinicole ogni qual volta e laddove una vite producesse il divino nettare, leggi dal Cile all’improbabile Irlanda per non parlare dell’India misteriosa (grappoli del sudest dell’affascinante subcontinente). E, se val più la pratica che la grammatica, ecco che non mi son sentito così a disagio tra tanti soloni scoprenti “lontani profumi di mela, non senza un aroma di (se ben ricordo) fiordaliso, ma non si perda la presenza del fico non senza apprezzare un accenno di arancia” (dopodiché il sommelier più osé, e a Torino direbbero lasarùn, chiudeti il degustativo commento ammonendoti – finale dell’assaggio ahimè previsto non meno che scontato – che c’è “pure un lontano richiamo di tabacco”). E vabbè, nessuno è perfetto, e bravi quelli che in un sorso vi ritrovano tanti svariati frutti e perché no pure qualche ortaggio – e vai con le erbette – pour èpater le bourgeois chiudono con il galop finale del loro assaggio accennando a (ma solo un pochino) a “tracce di tabacco” (nazionali esportazione o Marlboro? mah).
E c’è poi quella (beninteso a me circoscritta) curiosità consistente nel (per me) criminale dettaglio dell’assaggiare il vino sparandolo con la lingua tra le guance dopodiché invece di tracannarlo con un bel (almeno dalle mie parti si chiamava) golone, il liquido esaminato viene sputato in un contenitore. Per non parlare della frequente non meno che pessima abitudine degli assaggiatori di abbandonare nel calice una buona metà dell’esaminato contenuto. E fu così che al termine di questa cata (assaggio, per gli spagnoli, la mia carriera di dilettante e pure goffo assaggiatore di vini si è spinta financo oltralpe, pochi giorni fa sentenziavo su Tintos y Blancos nella castigliana Rueda) nello schieramento de i 5 canonici calici (a cranio) sollevati dai (più o meno sedicenti esperti) invitati dalle Tenute SalvaTerra solo un set appariva più degustato di un bacino idrografico a fine agosto.
Qui giunti, all’attento lettore ciucatè (così dicevasi almeno antan nel Vej Piemont) posso dire che la produzione delle citate Tenute veronesi (quindi si parla di uve Corvina, Corvinone e Rondinella) spazia dal Valpolicella Classico doc al Valpolicella Classico Ripasso, dal Lazzarone (che sempre Valpolicella è) all’Amarone Classico e all’Amarone Classico Doc Riserva Cave di Brun. E tra i nettari della SalvaTerra ci sarebbero pure Pinot Grigio e Prosecco, peraltro non schierati dai benemeriti produttori veronesi (forse già al corrente della mia prevalente pasiòn per i rossi). Un giudizio sui vini? Eccellenti. Una prova? Quei vuoti calici a me affidati, prosciugati fino all’ultima goccia.