Verso Bagan. Lasciata Yangon il viaggio prosegue per Nyaungshwe, sulla sponda settentrionale del lago Inle, dove arrivo alle otto del mattino. Niente male direi, visto che in sole quindici ore sono arrivata a destinazione. Certo, il fatto poi che Yangon disti dalla porta d’accesso al lago meno di 450 chilometri è un puro dettaglio… Comunque sia, non mi posso lamentare. L’esperienza bus birmano è indubbiamente da provare, magari muniti di un bel paio di tappi per le orecchie di buona qualità. Già, perché durante gli interminabili tragitti su torpedoni d’annata, la televisione rallegra l’atmosfera trasmettendo, a tutto volume, performance musicali e spettacoli comici che provocano l’ilarità generale.
In questo delirio, la nota positiva è che davanti a me siedono due ragazze italiane con cui nasce subito un bel feeling. Trascorreremo insieme i prossimi giorni. E così, dopo un cambio di mezzo a Shwenyaung, raggiungiamo il grazioso villaggio di Nyaungshwe. Non dobbiamo nemmeno dilungarci troppo alla ricerca di un alloggio perché è lui a trovare noi tramite i procacciatori di clienti. Una consuetudine nei paesi del terzo mondo, che mi infastidisce. Fortunatamente lascio gestire la faccenda ad Anna, una delle due nuove compagne di avventura. Concordiamo tutte sull’opportunità di trascorrere almeno due giorni a Nyaungshwe. E, strano a dirsi, visto che il cielo è terso, optiamo subito per una gita in barca sul lago. Un tour abbastanza classico, cosa che io di solito non amo ma che in Myanmar è una manna dal cielo: dopo Yangon, non disdegno nemmeno più l’ausilio della Lonely Planet.
Inle, il lago dei quattro villaggi
La giornata scorre lenta e rilassata sulle acque dolci del lago. Siamo a bordo di un’imbarcazione dall’aspetto longitudinale, con i sedili posizionati in fila indiana, timonata da un ragazzino che avrà si e no tredici anni di età. Mi rincuora il fatto che all’altro capo della piroga ci sia Nu Nu, la nostra guida, che ha abbondantemente superato la pubertà.
Il lago Inle è una delle attrazioni turistiche principali del paese. Nu Nu, che con l’inglese se la cava abbastanza bene, ci rivela che fino al 1996 il sito contava non più di quattro o cinque alberghi e ristoranti mentre oggi c’è l’imbarazzo della scelta. Ogni giorno si assiste a un valzer di piroghe cariche di visitatori che svolazzano leggiadre di villaggio in villaggio.
Quadri viventi di paesaggio
Ma noi siamo baciate dalla fortuna perché oggi c’è pochissima gente e l’atmosfera che si respira è a dir poco poetica: lontana dall’inquinamento acustico di Yangon, contemplo il paesaggio che sembra un quadro vivente e godo del puro piacere di essere qui. “Narra la leggenda”, ci racconta Nu Nu rompendo il silenzio, “che il re di Bagan Alaung Sithu stava navigando verso la frontiera quando si trovò di fronte una montagna e per farsi strada gli inferse un colpo di sciabola.” Io adoro le leggende e lo incito a proseguire.
“Attorno alla storia circolano numerose versioni, una di queste narra che la valle consegnata alle acque del fiume ha dato i natali al lago Inle dove il sovrano, accompagnato da trentasei famiglie, ha fatto poi costruire quattro villaggi”. E così scopro che il vasto bacino, prima di essere chiamato semplicemente Inle, si chiamava “Inléywa”, il “lago dei quattro villaggi”, e che di fatto il sito consta di quattro villaggi principali in cui vive la comunità degli Inta, i “figli dei laghi”, discendenti delle trentasei famiglie originarie.
Gli Inta pescatori e agricoltori. Coltivazioni su tappeti galleggianti
Gli Inta un popolo di pescatori e agricoltori la cui peculiarità è quella di remare, e pescare, su una gamba sola. Una tecnica ancestrale che somiglia a una danza e che gli Inta apprendono in tenera età: sono necessarie costanza ed esercizio per arrivare a padroneggiarla fino a renderla naturale, nobile e aggraziata.
Pescatori al mattino e agricoltori il pomeriggio, gli Inta hanno sviluppato un sistema di coltura perfettamente in sintonia con l’ambiente circostante. Il lago pullula infatti di orti galleggianti, un’immagine surrealista di una bellezza incomparabile: fiori, frutta e verdura vengono coltivati su tralicci di legno sostenuti da tappeti galleggianti di vegetazione.
Donne giraffa
Una giornata davvero densa ed emozionante. Andiamo al villaggio di Inthein, la cui lunga scalinata conduce alla Shew Inn Thein e al suo cospicuo numero di stupa dorati posizionati uno accanto all’altro. Poi al Nha Hpe Kuaung, meglio noto come il Monastero del gatto che salta. E ancora ai laboratori artigianali di sigari birmani e ai mercati galleggianti. Esco entusiasta dalla visita al laboratorio artigianale in cui vengono tessute le fibre delle foglie di loto. Un lavoro laborioso e delicato che consente di fabbricare solo qualche metro di tessuto al giorno. Un’arte molto apprezzata a livello mondiale.
Resto un po’ perplessa per la sosta a un negozio di artigianato che oltre a esporre manufatti di alta fattura esibisce le donne giraffa. Donne dell’etnia Padaung, una minoranza di lingua tibeto-birmana, che oltre a essere fisicamente martoriate – il peso degli anelli che circondano collo, braccia e caviglie può raggiungere i venticinque chilogrammi – diventano oggetto di curiosità alla stregua di un animale in gabbia. Sembra che questa consuetudine sia scaturita dall’esigenza di proteggere le ragazze dai morsi delle tigri, quindi con uno scopo nobile, e che con il passare del tempo sia diventata sinonimo di bellezza e ammirazione.
Bagan con i suoi templi e la magia al levar del sole
Siamo a due ore di tragitto da Nyaungshwe quando un acquazzone ci coglie del tutto impreparate! Due ore sotto la pioggia battente non guasta la magia della giornata che ci porteremo dietro fino alla partenza per Bagan! Con Anna e Catia ci diamo alla gastronomia locale, sperimentando l’improbabile. Alla fine eleggo il mio piatto favorito: un’insalata preparata con foglie di tè che vengono bollite, messe ad asciugare, ossigenare, fermentare e condite con olio di palma, arachidi, sesamo e anacardi. Una prelibatezza che risponde al nome di Le Phet. Poi, finalmente, è la volta di Bagan, un altro di quei luoghi mistici, idilliaci, quasi irreali.
Arriviamo a Nyaung U, dove alloggiamo, prima che sorga il sole. Molliamo i bagagli alla guesthouse e senza pensarci due volte saltiamo su un calesse per assistere all’alba su Bagan. Un altro dei miei must di questo viaggio che non conosce parole idonee a rendergli giustizia.
Ai tempi del suo apogeo, tra il XI e il XIII secolo, Bagan contava oltre 4.000 templi disseminati su una superficie di circa quaranta chilometri quadrati ma attualmente ne sono rimasti a dir tanto 2.000. Pagode… pagode… e ancora pagode! Tutte le mie aspettative pre-Bagan difatti, confermate all’alba quando il sito era pressoché deserto, si dissolvono non appena ci torniamo dopo colazione e la troviamo inquinata dal flusso dei turisti e dalla presenza di venditori ambulanti all’ingresso dei templi.
Attenti alle storie tristi, spesso nascondono la fregatura
Dopo aver visitato un cospicuo numero di templi sotto i raggi impietosi del sole, decidiamo di fare una sosta nei pressi del Patho Ananda, il primo dei grandi templi di Bagan. Onestamente, non distinguo più una pagoda dall’altra, un Buddha dall’altro… Siamo sedute un po’ in disparte quando una donna, una venditrice per la precisione, ci invita ad avvicinarci. Ha l’aria dolce e istintivamente tutte e tre raccogliamo il suo invito.
Parla un buon inglese e iniziamo a chiacchierare del più e del meno. Ci parla di lei, della sua storia: madre di sei figli ormai adolescenti, anni fa ha deciso di lasciare il marito che la picchiava ed è andata a vivere in un monastero. Insiste per farci dei regali. A lei non interessano i soldi, ci dice, ma il nostro piacere e la nostra compagnia. E poi, conclude, non è segno di buona educazione rifiutare un regalo che viene dal cuore.
Per cui non ci resta che accettare e, già che ci siamo, acquistare anche un po’ di souvenir. Nessuna di noi è stupida e sappiamo tutte che i regali li abbiamo pagati abbondantemente ma non è mai facile tirarsi fuori da questo tipo di situazioni. Prima di congedarci ci gioca l’ultimo tiro mancino invitandoci a pranzo al monastero per l’indomani. Ecco, penso ingenuamente, questo sì che sarebbe un regalo! Prese dall’entusiasmo, le proponiamo di passare a trovarci la sera alla guesthouse per i dettagli.
Il sole inizia la sua discesa per cui ci allontaniamo in cerca di un punto strategico da cui godere della splendida visione di Bagan al tramonto, il più lontano possibile da tutto e da tutti.
Segnali di fregatura…
Sulla strada del ritorno esprimo ad Anna e Catia le mie perplessità in merito alla nostra nuova amica per cui loro, invece, stravedono. Non le conosco a sufficienza e decido di non fare la guastafeste, sicuramente dopo la storia di Yangon sono un po’ prevenuta. Ceniamo insieme a lei che ci porta nel miglior ristorante di Nyaung U con prezzi decisamente più elevati rispetto al nostro budget giornaliero. Sorge spontaneo chiedersi come possa conoscerlo lei visto che quando entriamo viene accolta come una di casa. I primi evidenti segnali di fregatura.
Nel corso della cena ci parla di un posto magico nei dintorni di Bagan che si chiama Monte Popa, una sorta di Olimpo birmano (un vulcano spento) che a suo dire è la dimora spirituale dei 37 nat del Myanmar. Ce lo condisce talmente bene che alla fine decidiamo entusiaste di dedicare il giorno seguente a questa gita fuori porta: ormai di pagode ne abbiamo viste a sufficienza e magari questo luogo fuori dagli itinerari turistici merita davvero una visita.
… verso il magico Monte Pope
Solo che bisogna partire presto, ci raccomanda lei, ed essere di ritorno in tempo utile per il pranzo al monastero. Già, peccato che sia troppo tardi per prenotare un’escursione, andare in collettivo ci porterebbe via tutta la giornata e un taxi privato ci costerebbe un occhio della testa. E mentre siamo lì che valutiamo il da farsi, casualmente passa davanti al ristorante un suo amico automunito che ci porterà fino al Monte Popa per un prezzo di favore! Che sia stato calcolato tutto nei minimi dettagli con precisione e abilità è ormai assodato, ma nessuna delle tre ha il coraggio di tirarsi indietro… e poi c’è sempre il pranzo al monastero!
Credo che l’epilogo di questa storia sia ormai chiara a tutti. La visita al Monte Popa si rivela una delusione ma mai quanto quella di sentirci comunicare, poco prima dell’ora di pranzo, che i monaci non accordano il permesso di ospitarci al monastero. E così, una volta pagato l’amico con la macchina, tutta la gentilezza della nostra amica si è volatilizzata in men che non si dica! E beffa delle beffe, a stento è riuscita a mettere insieme due parole d’inglese per salutarci…
Leggi le altre puntate:
1. “Il risveglio della Birmania“
3. “Birmania: Mandalay, l’ultima capitale“
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