Giunsi per la prima volta a Philadelphia nella primavera del 2011. Avevo da poco compiuto il quarantesimo anno di età, e deciso che mi sarei concesso un viaggio in qualche posto interessante: per questo senza pensarci troppo accolsi l’invito di un amico, e prenotai un volo da Milano con scalo a Francoforte. L’amico è Gentian Alimadhi, un avvocato albanese che lavora ormai da molti anni nella mia città, dove nel frattempo ha preso la cittadinanza italiana. Lasciata l’Albania al principio degli Anni Novanta, la famiglia di Gentian si è divisa tra l’Italia e la Pennsylvania: lì la sorella maggiore, Frida, vive col marito, i due figli e gli anziani genitori.
Nel mese di aprile cadeva il settantacinquesimo compleanno del padre di Gentian, Behar, e in quell’occasione la famiglia si sarebbe ritrovata nella casa di Philadelphia per festeggiare la ricorrenza. Mi sarei potuto aggregare a loro, se l’avessi desiderato, in qualità di ospite. Mi assicurai che la presenza di un ospite in quella particolare occasione non fosse di eccessivo disturbo, e viste le sincere rassicurazioni che ricevetti, decisi di partire.
Al momento di controllare la scadenza del passaporto, cambiare qualche dollaro in banca e portare a far riparare la valigia, le informazioni che possedevo sulla città americana erano abbastanza superficiali: sapevo che Philadelphia è stata la prima capitale degli Stati Uniti, la città in cui venne proclamata l’Indipendenza, e che il suo fondatore William Penn aveva personalmente scelto quello strano nome greco sperando che nella nuova provincia allignassero sempre amore e concordia. Sapevo che nelle campagne circostanti alla città si erano insediate nei secoli popolose comunità Amish in fuga dall’Europa. Mi veniva in mente qualche bel film.
Conoscevo la leggenda dell’Esperimento di Philadelphia. E naturalmente conoscevo i Phillies, la squadra di baseball Campione del Mondo nel 2008, che proprio quell’anno schierava la più forte rotazione di lanciatori partenti mai vista da un po’ di tempo a quella parte. Insomma, non avevo materiale sufficiente per ambientarci un romanzo, ma abbastanza spunti per convincermi a partire, e controllare di persona che razza di posto fosse.
Dopo aver accettato l’invito di Gentian, per prima cosa controllai il calendario delle partite di baseball. Con un po’ di fortuna nei collegamenti, avrei potuto passare una notte a New York, e ovviamente una serata allo Yankee Stadium. E al mio ritorno in Pennsylvania avrei avuto anche il tempo di assistere ad una partita dei Phillies.
Dal 2005 mi sono ripromesso di fare almeno un viaggio l’anno a New York, e con la sola eccezione del 2010 sono riuscito a rispettare quell’impegno. Salvo che d’inverno, per ovvie ragioni, Stati Uniti significa baseball; e dunque mi assicurai che Frida riuscisse a procurarsi per tempo i biglietti d’ingresso alle partite, cosa che fece in pochi giorni con efficienza da veterana del Vecchio Gioco, scegliendo anche i posti più interessanti.
Rilessi la mail che mi aveva spedito: il 13 aprile io e Gentian ci saremmo goduti la partita dalle poltroncine blu dietro l’esterno destro dello Yankee Stadium; il giorno dopo saremmo rientrati a Philadelphia, e la sera del 15 sarebbe stato il turno di Philadelphia contro Florida. Voli, albergo, bus: tutto quadrava alla perfezione. Era dunque tempo di partire.
Atterrammo a Philly verso le tre del pomeriggio, nel bel mezzo di una giornata di primavera con qualche nuvola in cielo. Le vetrate dell’International Airport brillavano intorno a noi mentre i nastri con le valigie si mettevano in moto e i passeggeri in attesa accendevano i telefoni. Oltre lo sbarramento dell’Homeland Security, la parte americana della famiglia Alimadhi ci aspettava al gran completo: con Frida c’erano il marito Rezi, i due figli Florin e Edward, e naturalmente i genitori, ansiosi di abbracciare Gentian, la moglie Gerta e la piccola Noemi.
Fu un saluto molto intenso, ma breve: in men che non si dica i nostri bagagli passarono nelle giovani mani di Florin e di Edward, e fummo fatti accomodare sulle due auto guidate da Rezi e dallo stesso Florin. Con disciplina il nostro piccolo corteo si buttò sullo svincolo, e di lì sulla Statale 291.
A lato, pallida sotto le nubi fitte compariva poco a poco la città: piatta, rossa, rettilinea, prevedibile nel succedersi di costruzioni, depositi, officine. Aggirammo i cantieri navali, gli impianti d’estrazione, le cave. Il traffico scorreva muto e senza intralci. Lasciata la grande circonvallazione a sud, c’infilammo nella periferia cittadina. Pittoresca. Sonnolenta. Molto lontano – forse venti, forse trenta isolati – spuntavano adesso le sagome squadrate dei Liberty Place One e Two, appena visibili tra gli edifici bassi di muratura e legno. Giunti a nord di Passyunk Avenue, le auto accostarono.
In quel blocco di case tranquille con piccoli giardini e scale agli ingressi, e cortili quadrati sul retro, abitava la famiglia Alimadhi. Nel cielo s’incrociavano i mille fili del telefono e della luce che movimentano tutte le periferie americane. L’immagine complessiva era di un posto non ricco, non residenziale, ma assai dignitoso e tranquillo.
Entrammo dopo esserci tolti le scarpe, come usa nei paesi balcanici. La casa era una perfetta casa americana a due piani, cantina e cortile. Notai che mi era stata riservata la camera più bella: quella dei genitori di Frida e Gentian. Quell’assegnazione produsse una specie di effetto domino, la cui conseguenza ultima fu la sistemazione di Florin e Edward nel seminterrato.
I ragazzi devono avermi odiato, quel giorno, ma capii subito che le regole dell’ospitalità in casa Alimadhi erano di rigida osservanza mediterranea. Tentai un debole disimpegno: dissi che avrei dormito magnificamente in qualsiasi angolo della casa, ma venni zittito. Da quel momento, per i sette giorni della mia permanenza, venni trattato con riguardo impeccabile.
La prima cena fu un piacevole saggio di cucina balcanica. Focacce, frittata, tortino di verdure, carni bianche con salse di yoghurt, formaggi e insalata con olive. E buon vino europeo accanto ad assaggi di rosso californiano. Nel contesto americano, quelle portate abbondanti allineate in tavola ebbero l’effetto di farmi sentire a casa. Terminata la cena, strinsi una specie di patto virile con il vecchio signor Alimadhi.
Bevemmo un’elevata quantità di grappa che egli distillava personalmente nella taverna di casa, e brindammo l’uno alla fortuna dell’altro. Da quella sera in avanti, una robusta bevuta di grappa dopo cena divenne la tacita regola tra noi due. E per completare il trattamento, Alimadhi padre s’incaricò personalmente di farmi trovare ogni mattina nel piatto della colazione un sontuoso pancake a tre strati con fiumi di sciroppo d’acero.
Ci fu tempo anche per un piccolo giro nel centro commerciale e degli affari di Philly. Ma di quella sera ricordo solo la stanchezza del viaggio, il sonno che cresceva, l’impressione di grande solitudine che mi davano le finestre dei vasti uffici debolmente illuminate dalle luci di servizio – e un gruppo di ballerini di strada afroamericani che si esibiva in un giardinetto asfittico.
Dormii a lungo e di gusto. La mattina divorai il pancake preparato da Behar, un succo d’arancia, un caffè più che discreto, e dopo essermi saziato aprii la carta della città per studiarla con attenzione. Mi trovavo a South Philly, lungo la 20th, tra la Passyunk e la Jackson. A nord stavano il centro commerciale, la città monumentale, i musei, ma anche il quartiere alternativo e notturno, attorno a South street.
Quella era la direttrice naturale di ogni movimento. Sebbene Frida sconsigliasse di attraversare a piedi gli isolati tra Wharton e Washington, decisi che prima di tornarmene a casa avrei sicuramente ficcato il naso in quel dedalo di stradine pittoresche, dove abitazioni modeste si alternavano a chiese battiste, orti e negozi di cibi orientali. Non subito, però: non quel mattino. Di fronte all’abitazione degli Alimadhi, dalla parte opposta della strada, stava la fermata del bus.
Il primo spostamento sarebbe avvenuto grazie alla Septa, l’azienda cittadina di trasporti. Frida aveva già pronti i gettoni per il viaggio. Uscimmo di casa. Philly se ne stava lì, ad aspettarci, e il sole finalmente sembrava uscire dalle nubi, e regalarci tempo sereno.
(25/04/2014)