Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Chicago: l’utopia di Fritz Lang?

Chicago Foto di David Mark da Pixabay

Una città da guardare con il grandangolo. Con il suo skyline infinito e un lago, il Michigan, che potrebbe contenere tutta la Svizzera

Chicago Foto di Jürgen Polle da Pixabay
Foto di Jürgen Polle da Pixabay

Chicago è da guardare con le sue raffiche di vento che rendono la distesa lacustre un mare in tempesta e l’aroma agrodolce della canna da zucchero che riempie l’aria di note inebrianti.
Con i mille camini dell’hinterland degli otto milioni di abitanti e i grattacieli che ondeggiano alle sferzate del vento come distratti acrobati dell’aria.

Una città al limite tra realtà e finzione: pienamente cinematografica. Una vera simulazione della realtà, o meglio la realtà di un sogno negli occhi di Fritz Lang. Non parliamo della Grande Mela. Ma di una vera metropoli; anzi, l’unica Metropolis.

Down Town: il futuro è già presente
John Hancock Center
John Hancock Center foto Chris6d

Correva l’anno 1926 quando il visionario Fritz Lang, in pieno regime nazista promuoveva, in un futuro (oggi) prossimo una città ideale: una sorta di utopia rovesciata in cui la società seguiva un assetto dicotomico, strutturata com’era nel mondo in superficie, popolato dalla casta di agiati e quello sotterraneo vissuto da robotici braccianti. Come simbolo dei due mondi: un ascensore di vetro.
Un po’ come a Chicago, sospesa tra l’immensa massa d’acqua del Michigan e il loop, la sopraelevata che cinge il centro in un abbraccio metallico.

Chicago va vista dall’alto: a volo d’angelo, come appare quando si è prossimi all’atterraggio nella pista dell’aeroporto di O’Hare a trenta chilometri dal centro. Sulle cime dei tetti degli hotel, che come il Drake e il Chicago Towers brillano a guisa di ieratiche icone di un passato liberty. Oppure dalle terrazze dei veri padroni della città: i grattacieli.

Un passato di fuoco
Chicago River Foto cpogrund Pixabay
Chicago River foto cpogrund Pixabay

“Chaecaugou”, dall’indiano “luogo delle cipolle selvatiche”. Sembra infatti che quando i padri pellegrini giunsero per convertire i nativi indios della zona siano stati sopraffatti dall’intenso odore di questi ortaggi. Nel 1674, Padre Louis Joliot e Padre Jacques Marquette, due esploratori francesi che si fermarono sulle rive del Michigan, segnalarono che l’attraversamento del Chicago River era un’impresa nauseabonda a causa delle paludi che abbracciavano la pianura.
Dopo gli indiani fu la volta di Anthony Wayne, detto “il pazzo”, che li sconfisse nella battaglia di Fallen Timbers. Conseguenza della capitolazione Cheyenne fu un territorio di sei miglia quadrate alle foci del fiume Chicago.

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Da allora di acqua ne è passata sotto gli oltre trenta ponti del Chicago River. Anni in cui la città morì per un incendio nel 1871 per poi rinascere, come l’araba fenice dalle sue ceneri, più scintillante e splendente che mai. Oggi “the windy city” (la città del vento) sorride placidamente, solcata da acrobati dell’aria e percorsa da autostrade di macchine. Agevolata dalla sua struttura ortogonale Chicago è semplicissima da visitare. Due le arterie principali che l’attraversano: la Michigan Avenue che la taglia da nord a sud, per diventare nella sua sezione più estrema quel Magnificent Mile noto fin dall’epoca del proibizionismo, e la Jackson Boulevard da cui parte il sogno della beat generation: la Route 66.

Lou Mitchell’s: on the road
Chicago Route 66
Chicago Route 66 foto Rob Young

“Con l’arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada”. (Jack Kerouac, On the Road, 1959)

Così ha inizio il sogno Americano. Quello di Kerouac on the road, a cavallo di un destriero d’acciaio e bulloni. Quel sogno che profuma di Lucky Strike e di infinite notti, a stelle e strisce, nel deserto dell’Arizona. Che viaggia alla velocità moderata di sessanta miglia orarie e che attraversa Missouri, Kansas e Texas per sfociare in Arizona. Quel sogno che inizia nell’Illinois; anzi, a Chicago dove un locale, divenuto storia, rivive quotidianamente le pagine di Kerouac nel suo essere incipit della Route 66.

Con le sue insegne al neon, Lou Mitchell’s sembra uscito dal serial TV Happy Days. Chiedete a Donna o a Mickey, ingombranti cameriere di colore, cosa conviene gustare e loro vi porteranno piatti di pancakes da vestire di sciroppo d’acero, muffins alla cannella, o ancora cookies e donuts. Chi invece, vittima delle sette ore di fuso orario, non saprà resistere ai rantolii della fame “salata” potrà buttarsi in variazioni di uova: dalle scrumbled alle boiled accompagnate da ham, braciole vestite da prosciutto, o dal più classico bacon.

Chicago: “L”, come Loop
Chicago Loop
Chicago Loop

Chicago va vista a testa in su e con il fast forward. Anche se spesso quest’ultimo risulta superfluo perché il suo centro è di un dinamismo straordinario. Sia a terra, dove il loop forma con una serpentina metallica una sorta di raccordo anulare, che per aria dove i cirri eseguono un’estenuante corsa nelle autostrade del cielo.
Il loop, immenso corridoio che taglia il centro storico della città, prende il nome dalla forma che disegna: un cerchio nicciano in cui inizio e fine coincidono. Gli edifici all’interno della cerchia costituiscono un virtuale manuale di architettura americana.

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Tutto ha inizio con un incrocio: quello di Madison Street con State Street, punto zero di un sistema di numerazione in base al quale ci si può orientare senza conoscere i nomi delle vie. Molti quartieri di Chicago prendono il nome dalla loro posizione rispetto al Loop che costituisce un discrimen tra la down town e l’hinterland: South Loop, Near North, West Side, per citarne alcuni. E’ all’interno della cerchia del loop che si elevano i signori dell’architettura moderna: gli skyscraper.

Dove osano le aquile (americane)
Chicago La Cattedrale
La Cattedrale foto David Wilson 

Alti, altissimi, protratti verso le stelle come metaforiche torri di Babele della comunicazione. Sono i grattacieli che dominano, con fare imponente, lo skyline della città.
Mecca per gli architetti, Chicago sedusse fin dagli anni venti le più importanti firme dell’epoca. Nomi del calibro di Sullivan, Adler, Burnham fino a Frank Lloyd Wright, uniti nel brain-storming da cui sarebbe nato uno scheletro d’acciaio e con esso una parola, ambiziosa fin dall’etimo: il grattacielo.
Anche se la denominazione corrente era “costruzione alla Chicago”, a paradigma di quanto era stata vinta la battaglia dagli abitanti della cittadina del Midwest.

Morì del tutto, qui, la tradizione millenaria che voleva la guglia della Cattedrale e il torrione del Palazzo svettare incontrastati sulle case. A Chicago ebbe la meglio chi aveva più oltracotanza, più “ubris”, per dirla alla greca, e questo fu il suo volto inconfondibile di metropoli. Il pioniere di questi giganti ora non esiste più: era l’Home Insurance Building del 1897 e dove oggi ha sede una banca solo una lapide fa da memento al primo grattacielo della storia.

Vennero poi gli anni Venti, segnati dagli spari dei gangster, dai fuochi del Ku Klux Klan e dalla metamorfosi di quei giganti di ferro che cominciavano ad uscire dallo standard di ideologia per diventare un vero e proprio status symbol. Tanto che anche i magnati del chewing gum, i Wringley, lasciarono una traccia del loro apogeo. È il Wringley Building, ardita struttura, a pianta triangolare, divisa in due sezioni unite da un corridoio sopraelevato.

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La Tribune Tower 
 Tribune Tower
Tribune Tower foto Ken Lund 

Seguì la Tribune Tower del 1925 progettata dallo stesso architetto che disegnò il Rockfeller Center, dopo che il “Chicago Tribune” bandì un concorso di architettura per scegliere la struttura definitiva. Gli anni Sessanta portarono due torri gemelle: le Marina City. Come pannocchie figlie dell’acqua, questi colossi di cemento armato sorridono dall’alto dei loro 179 metri.
Era cominciata la corsa verso il cielo. Gli skyscraper dovevano spingersi ancora più in alto. Nacque così l’Amoco Building, con la sua essenziale struttura a parallelepipedo che si eleva per 346 metri, l’Hancock Tower e la regina delle regine: la Sears Tower.
Gioco di nove costruzioni di altezza differente accostate fra loro, la Sear Tower è la seconda torre più alta al mondo, sconfitta nel primato dalle gigantesse malesi figlie dell’oro nero: le Petronas Tower di Kuala Lumpur.

Anche se gli abitanti di Chicago vi diranno che la “Sears” vince su più fronti: perché è l’edificio più alto al mondo ad ospitare abitazioni, perché dispone del punto più alto d’osservazione aperto ai turisti e per le sue antenne.
Ma in questa gara poco importa se a vincere siano Oriente o Occidente, perché Chicago resta la città dei primati, il cui hinterland regalò i natali al primo Mc Donald’s e che scandì i giorni dell’Home Insurance Building, pioniere dei grattacieli. Che ha ascensori che permettono di raggiungere 400 metri in poco più di un minuto e che è unita dall’abbraccio metallico del loop.
Come nella metafora cinematografica di Fritz Lang. Perché Chicago è una metropoli. Anzi, è Metropolis.

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