Chichén Itzá, preferita dai turisti
Chichén Itzá non ha la stessa fortuna di Uxmal: a centoventi chilometri a sud-est di Merida e duecento d’autostrada dalla frequentatissima Cancún, è il luogo più visitato della penisola, aggredito dal turismo. Già alle dieci di mattina le rovine sono sovraffollate: l’unico consiglio, qui come a Tulum, è di trovarsi all’ingresso all’orario di apertura del sito.
Chichén ha una storia particolare e alquanto dibattuta: fiorì come tutte le città maya nel periodo Classico, fino al X secolo, poi invece di decadere come le altre, fu probabilmente invasa da una tribù bellicosa, gli Itzaes, che le lasciò splendide costruzioni e il suo secondo nome: Itzá. Da allora e fino al 1200, quando la città fu abbandonata, si ebbe il periodo di massimo splendore; di quest’epoca sono i monumenti più importanti che mescolano elementi maya con altri dell’Altopiano centrale messicano (toltechi) portati dagli invasori. Il “Templo de los Guerreros”, il “Templo de las Mil Columnas”, il “Templo de los Jaguares”, il “Caracol”, il “Tzompantli”.
Un gioco della palla pericoloso
E anche il più grande “juego de pelota” del mondo maya. Come giocavano alla palla i Maya? Con tutto eccetto mani e piedi: non era proprio un gioco da ragazzi far rimbalzare con anche e gomiti quella “pelota” di gomma che raffigurava il corso del Sole nel cielo. Era la lotta cosmica tra luce e tenebre, un evento sacro dove si scontravano forze solo apparentemente opposte. Alla fine della partita c’era il sacrificio rituale. Sacrifici umani, che venivano compiuti anche nel grande “Cenote Sagrado”, il più celebre pozzo dello Yucatàn, con i suoi sessanta metri di diametro, che alla città diede l’acqua e il suo stesso nome, che significa “bocca del pozzo”, nel quale veniva adorato con rituali e offerte votive il dio della pioggia Chac.
È dedicato invece al dio Kukulcán il “Castillo”, che è la struttura maggiore e più importante di Chichén Itzá. Lo costruirono in modo che sulla scalinata del lato settentrionale, ad ogni equinozio, si ripetesse lo stesso fenomeno: un gioco di luce e ombra disegna il corpo sinuoso di un rettile che scende verso terra e si conclude nelle grandi teste di serpente alla base della scalinata. Il serpente è il simbolo di Kukulcán, che deve fertilizzare la terra, e in questo modo veniva indicato ai sacerdoti che era tempo di iniziare la semina.
Il “Castillo” è interessante anche per un altro motivo: è la raffigurazione in pietra del calendario maya. Proviamo a contare: l’edificio ha quattro scalinate, su ogni lato novantun gradini; la somma di tutti gradini più quello superiore d’ingresso al tempio, dà come risultato 365, i giorni dell’anno secondo il calendario solare. Ma la cosa era più complicata di così: a quel calendario se ne combinava un altro, religioso-divinatorio, di duecentosessanta giorni e ci si serviva di un complesso sistema di numerazione che includeva l’uso dello zero. In questo modo i Maya pianificarono i propri insediamenti secondo precisi calcoli astronomici: esiste una relazione imprescindibile tra astronomia e archeologia maya.
Da Tulum, con i “viali bianchi”…
Di Tulum, il sito archeologico più importante della costa, difeso su tre lati da una muraglia, protetto sul quarto da alte falesie, dominato dal “Castillo”, la costruzione più imponente con resti di affreschi nel “Templo de los Frescos”, aggiungeremo soltanto che era solcato da grandi “viali bianchi” pavimentati con lastre di pietra calcarea (sacbé) che si inoltravano nella foresta collegando tra loro le città della regione. Grazie alla posizione privilegiata sul mar dei Caraibi, Tulum era un porto dall’intensa attività commerciale, importante soprattutto nel secolo che precedette la conquista spagnola. A centotrenta chilometri da Cancún, Tulum era l’incanto che è tuttora se lo si immagina senza quell’immenso parcheggio all’ingresso del sito, il trenino che porta alle rovine, un’infilata di negozi di souvenir (typically mexican!).Ma a saperla prendere la penisola dello Yucatán, la parte più turistica del paese, riserva grandi sorprese.
…sino a Cobà, nel cuore della foresta
Come Cobà, un sito di intenso fascino appena una cinquantina di chilometri a nord di Tulum. Seducente per la posizione nella fitta foresta che ricopre in parte le costruzioni e per le architetture di quella che fu un’importante e vasta città nel tardo periodo Classico, quando controllava la rotta commerciale dalla costa al cuore della penisola e aveva fitti traffici con località anche molto distanti (fino al Petén, in Guatemala). Rotte unite da un numero straordinario di “sacbé”, il più lungo dei quali (che sarebbe la più lunga strada maya conosciuta) raggiungeva, a cento chilometri di distanza, Yaxunà, non lontano da Chichén Itzà. Domina l’area archeologica immersa nella giungla tropicale l’edificio principale: la piramide di “Nohoch Mul” che con i suoi sette ripiani raggiunge l’impressionante altezza di quarantadue metri. A proposito di innalzamento dei templi verso il cielo.
Informazioni turistiche: www.visitmexico.com
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