Ognuno di noi ha un suo calendario personale, nel senso che – oltre alle solite festività civili e religiose, e al compleanno di figli e mogliera – nello spazio di un anno memorizziamo alcune date coincidenti con vicende o particolari avvenimenti ai quali ci è grato partecipare. Con il passar del tempo questi appuntamenti diventano un’abitudine, una tradizione alla quale non vogliamo rinunciare.
Tanto per produrre un esempio, tra alcune mie irrinunciabili abitudini annovero una manifestazione inventata dall’Angelo Serri, Tipicità, Festival dei Prodotti Tipici delle Marche, in quel di Fermo, alla quale sono immeritatamente invitato da un paio di lustri (quest’anno è giunta alla 13a edizione). Ho bigiato poche volte. Dopo un paio di partecipazioni, però, mi sono anche chiesto quali motivazioni mi spingono e convincono ad affrontare – sulle nostre indegne, poco informanti e carissime autostrade – più di un migliaio di km in auto (Milano / Fermo / Milano = 960 km, cui vanno aggiunti due canonici blitz, sulla collina romagnola in quel di Meldola a comprare il castrato e a Carpi per grana e Lambrusco).
L’indagine su “Perché tanta aficiòn marchigiana a metà marzo di ogni anno?” è da me condotta per esclusione. In primo luogo non mi metto in viaggio per disperazione provocata dalla disoccupazione: fortunatamente la mia giornata milanese dura ancora 25 ore (sennò, sai che bello finire alla bocciofila o a rompere le balle a chi lavora ancora?). Escludo poi che a farmi partire sia il tempo: da lustri, informano i tanti discendenti del Bernacca su non meno tivù, il Nord del Belpaese – segnatamente el mè Milan – è una sorta di Florida con accettabili temperature e poche precipitazioni mentre da Bologna in giù barbellano tra freddo e nevi. E respingo infine, fermamente, l’idea che la trasferta possa essere motivata dalle rituali, tremende sbafate proposte da Serri con sempre maggior veemenza.
Trionfo di gusto e sapori
Per la cronaca trattasi (conteggio in difetto) di: 5 paciate 5, dalla cena del venerdì a quella della domenica) cui aggiungasi qualche merenda, eppoi vini, vino cotto e vinelli vari (ahi la gioiosa Vernaccia di Ripatransone), assaggi durante la visita agli stand Tipici e, ante-pasti, aperitivi con le ovvie non meno che onnipresenti e parimenti goduriose olive all’ascolana (cui si sono miracolosamente aggiunte quest’anno, allo Yacht Club di Porto San Giorgio, mazzancolle fritte da inginocchiatoio), indi non enormi ma frequentissime degustazioni di mistrà (al top il Varnelli, ma van giù anche quelli casarecci) per non parlare di qualche salsiccia lungostrada e dolcetti andanti ad deporsi sui maccheroncini di Campofilone. Oddio, ci sarebbe pure il pacco-dono, slungato da Serri (come facevano le crocerossine nei campi di concentramento) al momento del congedo: vabbè, qualcosa (si fa per dire) c’è dentro, ma uno mica si fa più kilometri di un GP di F1 solo per qualche genere di conforto marchigiano.
Ecco quindi che non sono spinto a Fermo e dintorni dall’esecranda Fame dell’Oro né dal piacere di farmi largo nella vita (ancora un paio di Tipicità e il mio fisico di falso-grasso potrà vantare più centimetri di circonferenza che di elevazione). No.
Perché continuo ad andare nelle Marche a metà Marzo?
Elementare Watson
. Ci vado per depurarmi (mentalmente, ça va sans dire), per godere quella che considero la vera Italia, per gustare il bello e la cultura, per avere conferma che le ideologie nulla contano (l’importante è chi le interpreta) e che nel Belpaese esistono ancora posti dove sopravvivono i rapporti umani.
Vado nelle Marche e mi depuro da Milano (ma tutte le grandi città dello Stivale sono un’unica grande, invivibile cloaca) non tanto dalle sue polveri sottili (a lungo andare ti abitui a respirare la cacca e provi ribrezzo se ti fanno odorare Chanel N° 5) quanto dall’imbarbarimento della cosiddetta gente. Nell’ormai enorme suk milanese la maleducazione impera, ai semafori sciurette arricchite ti violentano l’udito strombazzando da fuoristrada da centomilioni di vecchie lire (chi scrive lavora in un ammezzato su un quadrivio e sta peggio del Calindri al tavolino nel vecchio spot del Cynar); poco più in là quello dell’auto dietro spara clackson e un paio di vaffanculo se al verde quello dell’auto davanti non parte sgommando come Schumacher; mentre un poveraccio mangia squallidamente per strada un tozzo di pizza sugnosa farcita di smog un camioncino diesel lo condanna al cancro al polmone ruttandogli addosso una bella fumata di gasolio.