Giovedì 21 Novembre 2024 - Anno XXII

L’alfabeto delle Olimpiadi torinesi – 2

Continua e termina l’alfabeto che è si “ordine condiviso”, ma anche lettere che prendono significato se accoppiate ad altre parole; per esempio in “R come Ricordo”. Quello, nel tempo, di una grande, comune avventura

Seconda parte: dalla “N” alla “Z”

Volontari olimpici
Volontari olimpici

N
Noi 2006 

– I volontari. Bello, lo slancio della città metropolitana nel dare una mano.
La voglia di esserci, di partecipare, di sentire che a casa tua accadono cose “grandi”.
È lo spirito giovanile, quello dei concerti di Vasco o dei Papa Boys, ma anche quello dei pensionati che sono stati nei grandi sindacati operai, quello dei Nonni Vigili, dell’associazionismo, delle scuole che solo alcuni anni fa facevano il “tempo pieno”, degli alpini, sempre generosamente presenti. Quando il Wall Street Journal, probabilmente con un servizio-desk costruito su internet, dice che a Torino non c’è partecipazione popolare, prende una bufala colossale. Quarantamila persone che decidono di dedicarsi gratuitamente ai Giochi sono una grande cosa, anche perché molti si dedicano alle Paralimpiadi, dove non ci sono i riflettori delle Olimpiadi. Bravi, 9.

Stadio Olimpico
Stadio Olimpico

O
Olimpico, Stadio – Se qualcuno fosse passato solo un paio d’anni fa in corso Sebastopoli, avrebbe visto un vecchio rudere abbandonato, pieno di scritte di odio, con i calcinacci che piovevano dalle tribune e dalla Torre Maratona. Vincolato dai Beni architettonici (quindi senza possibilità di essere abbattuto in favore di un centro commerciale) e senza “destinazione d’uso”, il vecchio Stadio Mussolini, conosciuto per lunghi anni come “Comunale”, nome anonimo per imprese super, sembrava alla fine, peraltro poco dignitosa, della sua carriera. Nessuno l’aveva chiamato “il Regio del calcio” e non interessava a nessuno. Ora si è ringalluzzito, si fa chiamare “Olimpico” (come solo quello di Roma osa fare) ha fatto un bel lifting ed è tornato al centro di una zona di architettura sportiva. C’è solo da temere per il suo futuro. Se, come pare, sarà consegnato al Torino e la Juventus ci giocherà per un anno, due sventure sono già annunciate: non si chiamerà più “olimpico” e compariranno di nuovo quelle scritte d’odio e di scemenza di poco tempo fa.

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P
Paralimpiadi – Si dice sempre che bisognerebbe imparare dagli sport minori. E si sono spese parole retoriche per dire che gli atleti disabili erano ammirevoli. Forse, con un po’ di retorica, sarebbe il caso di dire che bisognerebbe imparare a fare sport. Sul serio, e utilizzare Sky solo per vedere quelli più bravi, i fenomeni.  

Pax – Pace olimpica. Sugli schermi passa spesso un filmato in cui Kofi Annan lancia il suo appello per la tregua olimpica. Si fa quel che si può, senza pensare che, improvvisamente, tutte le ragioni della guerra, delle guerre, scompaiano. Ma iniettare un minimo di dubbio, una parvenza di analisi introspettiva nei combattenti, anche solo un pensiero di pietà, è già di per sé un’azione sensata, anzi, meritoria. È il fattore tempo, quello decisivo. Un break all’odio può far capire che il break è possibile. Nel ’44, nelle Ardenne, la notte di Natale, dalle trincee tedesche si alzò il canto “Stille Nacht” e quella specie di “inno olimpico” innescò la pace di un giorno. Poi si riprese a sparare, ma il seme era gettato e anche solo un giorno senza morti, è pur sempre un bel risultato.

L’alfabeto delle Olimpiadi torinesi - 2

Q
Qui e ora –  C’era una sfida, legata ai XX Giochi Invernali. La sfida all’Italia, all’immagine dell’Italia. Allo stereotipo dell’Italia, che sa solo fare fumo (anche un bel fumo, che affascina) ma quando si tratta di arrosto, beh, è meglio lasciare i duri a giocare. Le Olimpiadi non possono cambiare questa percezione, massmediologica e antropologica. Ma si sono fatte, e bene. Non meglio di Salt Lake City, o di Sydney, o di Nagano. Questo lasciamolo dire agli altri. Ma si sono fatte, come le avrebbe fatte un Paese “normale”. E, questo, solo questo, è una grande vittoria.
Perché ci dice che noi non siamo antropologicamente minorati nell’organizzazione, non siamo condannati all’approssimazione, alla superficialità, non siamo tutti schiavi dell’effimero. Se ci rendiamo conto di questo, sarà un Paese migliore per tutti.

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R
Retorica – Quella olimpica, che fa storcere il naso a molti, che non arriva alle emozioni di altri. Ma che cos’è la retorica “buona”, se non il terreno comune, il recinto delle regole condivise, l’alfabeto della comunicazione, in cui e con cui esprimere partecipazione, speranza, gioia.

S
Sami – Cioè Lapponi. Hanno percorso 5.000 chilometri su un vecchio bus, dalla Lapponia norvegese fino a Sauze d’Oulx. Lì, hanno piantato due grandi tende (le “kota”) con rami di betulla e il foro per il fumo in cima; hanno cantato le loro canzoni (joik) e indossato i loro costumi multicolori, preparato i loro piatti di carne di renna e parlato con i visitatori. Perché? Per testimonianza, si potrebbe dire. Per mostrare al mondo un altro sentiero, quello di una vicinanza sentita con la natura. Diventando così, però, i “global” dei “no-global”, come spesso succede. Utilizzare metodi ed eventi globali per testimoniare la propria scelta antiglobale è un ossimoro obbligato. La globalizzazione, infatti, impone le sue regole, e non c’è modo di patteggiare.

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