Il famoso cappello di finissima paglia non ha niente a che vedere con questa striscia di terra che separa l’Atlantico dal Pacifico. E’ infatti prodotto nell’Ecuador mediante un paziente lavoro artigianale e il suo nome indigeno è “Jupijapa”. Si chiama Panama solo perché il presidente Usa Theodore Roosevello sfoggiò durante una visita compiuta nel 1904 per definire, “pro domo sua”, la vicenda del Canale in costruzione.
La corretta pronuncia ispanica della città e dello stato, da pochi anni titolare della celebre via d’acqua, è Panamà. Con l’accento sull’ultima “a”, come dicevano gli Indios, che trasmisero il termine ai Conquistadores.
Da una costola della Colombia
Ma è più saggio trattare argomenti meno futili, perché la storia del Panamà è molto interessante. Densa di avvenimenti davvero intriganti per le differenze, i contrasti e le contraddizioni. Ebbero inizio con il quarto viaggio di Colombo. Un viaggio che lungo le coste caraibiche (1501-1504) assunsero importanti sviluppi nei primi anni del secolo scorso. Con la secessione del 1903, Panamà si trasformò da provincia di un Paese sudamericano nello Stato più meridionale del Centro America.
Zona questa non vasta e poco conosciuta ma interessante per la presenza di un centinaio di vulcani attivi, tante bio-diversità, quattordici siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità. Quanto a dimensioni (settantottomila chilometri quadrati, un quarto dell’Italia), popolazione (tre milioni di abitanti) e clima (piogge da agosto a novembre, caldo tropicale da maggio a luglio, clima accettabile, quindi adatto al turismo, da dicembre ad aprile). Il Panamà è allineato sulla media dei Paesi a settentrione: Costa Rica, Nicaragua, Honduras, San Salvador, Guatemala, Belize.
Luogo di transito dei tesori Incas
Scarsamente abitato da genti culturalmente inferiori ai Maya e agli Aztechi a nord e agli Incas a sud, il Paese entrò nella storia che conta con i Conquistadores spagnoli. Il 15 agosto 1519 Pedro Arias de Avila (più sbrigativamente noto come Pedrarias) fondò un centro abitato che chiamò Panamà, primo insediamento europeo sull’oceano Pacifico.
La cittadina ebbe rapido sviluppo perché punto di collegamento tra la Spagna e il Perù. Dal Callao, il porto di Lima, i carichi di oro e argento navigavano fino a Panamà. Poi venivano trasportati alla “caribeña” Portobelo via terra e in barca, sui laghi oggi compresi nella zona del Canale.
Da qui i galeoni intraprendevano l’ultimo trasferimento verso Cadice. Il percorso inverso era compiuto dalle merci che la Spagna imponeva alle colonie, vietando l’acquisto di prodotti di altra provenienza. Panamà “La Vieja” (da vedere le rovine a un paio di chilometri dall’attuale centro città) prosperò per un secolo e mezzo con dovizia di chiese e conventi. Quello dei Mercedarios ospitava una numerosa colonia di negri. Ma nel 1671 non sfuggì alla distruzione ad opera dal celeberrimo Morgan Il Pirata, che con Sir Francio Drake costituì un vero e proprio incubo per l’impero spagnolo.
Tra spagnoli e pirati
Poco meno di due anni dopo, il 21 gennaio del 1673, Antonio Fernandez de Cordoba y Mendoza cominciò la ricostruzione della città in una zona più difendibile, sul promontorio occupato attualmente dal pittoresco Casco Viejo.
Identiche vicende, nello stesso periodo storico, sulla costa del Mar dei Caraibi. La ben preservata Portobelo, la cui protetta insenatura fu scoperta da Colombo il 2 novembre del 1502 (poco distante un altro insediamento colombiano, Nombre de Diòs) è da qualche anno Patrimonio dell’Umanità.
Sede di una dogana che registrò gran parte dell’oro Inca diretto verso la Spagna, fu teatro di grandi “fiestas” e gozzoviglie durante le soste dei galeoni nei loro periodici viaggi transoceanici. Ma nonostante alcune batterie costiere e un possente forte costruito da Juan Bautista Antonelli nel 1586, anche Portobelo fu facile preda del solito Morgan. La costante e progressiva diminuzione dei traffici tra i due oceani relegò in secondo piano le vicende storiche di Panamà nel Settecento e nell’Ottocento.
Arrivano gli “Yanquis”
All’inizio del secolo scorso l’indipendenza del Paese dalla Colombia e la crescente importanza del territorio nella politica estera degli Stati Uniti, crearono un progressivo distacco dalla cultura spagnola (fatta salva la presenza del “castellano”, lingua ufficiale convivente con l’inglese) e dallo stile di vita coloniale. Quasi un secolo di presenza “yankee” nel Canale hanno reso Panamà City più somigliante a Miami che a una città creata e governata per quattrocento anni dalla colonizzazione europea.
Dopo personaggi come Colombo, Pizarro, Morgan e Theodore Roosevelt, nella storia del Panamà ha trovato posto (negli anni 1984-89) pure il generale Manuel Noriega. In dissidio con gli Usa per questioni di narco-traffico, dopo una breve fuga nell’ambasciata del Vaticano fu impacchettato dalla Cia e portato in un penitenziario della Florida a scontare la condanna a quarant’anni.
L’isola di Las Flores apprezzata da Gauguin
La storia del Panamà intriga, la natura interessa, il turismo vanta alcune buone proposte. In venti minuti di volo si raggiungono le trecento isole “caribeñas” dell’arcipelago di San Blàs, popolate dagli Indios Kunas. Sempre nel Caribe, meritano una visita le candide spiagge e il “Parque Nacional Maritimo Bastimentos” a Bocas del Toro. Tassativo il messaggio del Turismo Panamense: “Scopritele voi prima che le scoprano le masse”.
Nell’oceano Pacifico, solo un’ora di lancia separa Panamà dalle isole Taboga, Contadora e De Las Flores. Quest’ultima molto apprezzata da Gauguin. Poco più al largo, a San Josè, una grande catena spagnola offre “sol y playa” alla Hacienda del Mar.
Il Canale, un’idea antica
Ma è il Canale il grande “appeal” che obbliga a visitare questo angolo del Centro America. Una eccezionale opera umana, arricchita da intriganti risvolti politici e importanti elementi tecnici, che va vista con i propri occhi; non bastano i resoconti o le cronache grafiche. L’idea di costruire una via d’acqua per congiungere Atlantico e Pacifico non è recente: solo pochi anni dopo la scoperta dell’America (1534) Carlo V ordinò uno studio topografico sulla fattibilità.
E Panamà non fu l’unica zona del Centro America nella quale si ipotizzò un collegamento marittimo. Nel Nicaragua, infatti, una nave può risalire dal Mar dei Caraibi il fiume San Juan. Navigare sull’enorme lago Nicaragua o Cocibolca e giungere – separata da un territorio non aspro e montuoso – a soli diciotto chilometri dal Pacifico. Un progetto cino-brasiliano-giapponese di un Canale nicaraguense, in alternativa a un piano di costruzione di un secondo Canale di Panamà (parallelo a quello attuale) è attualmente allo studio.
L’intervento USA per completare il Canale di Panama
Nella seconda metà dell’Ottocento, non pago della costruzione del Canale di Suez, Ferdinand de Lesseps tentò due volte un identico successo a Panamà. Ma fallì (1889 e 1894) e dovette vendere il progetto agli Usa. Gli americani investirono altri soldi per proseguire i lavori. Soldi che si aggiunsero a quelli spesi per “comprare” l’indipendenza del Panama. Per Washington non fu difficile inaugurare il Canale il 15 agosto del 1914 con il passaggio del cargo statunitense Ancòn.
Erano occorsi dieci anni di durissimi lavori. Impiegati settantacinquemila uomini e una spesa di quattrocento milioni di dollari. Oltre a un impressionante costo di vite umane dovuto a incidenti, frane, smottamenti e soprattutto malattie (a quel tempo difficilmente curabili). Malattie come la malaria, il tifo, la febbre gialla. Nulla toglie alla grandezza dell’opera l’aiuto logistico di una ferrovia già esistente, costruita dagli americani nel 1855 e battezzata con vanto la “first transcontinental railroad of the Americas” (la prima ferrovia transcontinentale delle Americhe).
I “numeri” del Canale
Centocinquant’anni dopo, sullo stesso percorso, un treno comodo e panoramico conduce pendolari e turisti. Una escursione giornaliera tra due oceani, da Panama City a Colòn, dove opera dal 1948 una zona franca destinata a divenire il più grande Duty Free all’ingrosso nel mondo. I numeri del Canale sono impressionanti. Le navi, circa tredicimila all’anno, lunghezza massima 294 metri, percorrono ottanta chilometri in meno di dieci ore. Si va dalle chiuse di Miraflores (Pacifico) a quelle di Gatùn (Atlantico).
Proprio grazie alle chiuse, vengono sollevate fino ai ventisei metri sul livello del mare del lago Gatùn e pagano pedaggi in rapporto al tipo di imbarcazione e tonnellaggio; per la “storia”, si va da 0,36 cents pagati nel 1926 da Mr. Richard Halliburton per la sua barca a vela, ai 226.194,25 US Dollars versati dalla Coral Princesa per trasbordare i croceristi da un oceano all’altro.
Curiosamente, l’efficienza del Canale è legata alla preservazione dell’ambiente. Le chiuse divorano infatti grandi quantità di acqua provenienti dal lago Gatùn, alimentato dal fiume Chagres. Qualora l’ecosistema subisse variazioni (cambiamenti di clima per taglio di alberi della foresta pluviale, minori piogge, scarsa attenzione al territorio) la via d’acqua andrebbe incontro a grossi problemi.
La “politica” qui è di casa
A fronte di immanenti problemi ecologici, il Canale ha almeno risolto quelli politici. In base al Trattato Carter-Torrijos (1977) dalla mezzanotte del 31 dicembre 1999 Panamà ne ha assunto la titolarità e i pieni poteri.
In ossequio al “Go Home” frequentemente urlato nell’America Latina, gli Yanquis se ne sono andati ma le loro tracce restano, non solo nel Canale e negli aguzzi profili dei grattacieli della capitale.
Una breve visita alla penisola di Amador, tra impianti sportivi, eleganti club e ricchi edifici, svela gli agi e i piaceri degli addetti ai lavori nel Canale e alla sicurezza del territorio.
Sul versante atlantico, a Colòn, l’attuale lussuoso hotel Melià fu ospedale durante la seconda Guerra Mondiale e in seguito “ateneo” della Cia per l’istruzione dei dittatori latinoamericani: Pinochet, Somoza e il già citato “caudillo” locale, “Faccia d’Ananas” alias generale Noriega.
Panamà, futuro tranquillo?
Ricca di una storia abbastanza curiosa e interessante e di quella gallina dalle uova d’oro chiamata “Canale”. Panamà inizia il terzo millennio con una certa tranquillità. La democrazia – un filino “ballerina” come in tutti i Paesi dell’America centro meridionale – sembra tenere la cottura (beninteso, condita in “salsa latinoamericana”).
Nella capitale un coacervo di razze e genti, ogni angolo del mondo è rappresentato, convive senza problemi. Mancano solo i discendenti di quegli Indios che prima dell’arrivo dei Conquistadores possedevano questa terra. Parlo dei sette gruppi etnici locali (il più noto gli Emberà) sono rimasti più o meno dove Colombo li aveva “scoperti”. Ma i propositi dei neo governanti sembrano buoni, almeno graficamente. Appena atterrato a Panamà il viaggiatore, poco fuori dall’aeroporto, viene convenientemente informato da una vistosa scritta “la corrupciòn genera pobreza” (la corruzione genera povertà).
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