È possibile che un popolo preistorico, che non aveva inventato nemmeno la ruota (e quindi tanto meno l’aereo) abbia tracciato sul terreno enormi disegni di uomini e animali, il cui profilo è percepibile solo dal cielo?
Se lo sono chiesto in tanti, guardando la Pampa de San José, un deserto che si stende lungo la costa del Perù, nei dintorni di una città chiamata Nazca (in spagnolo) o Nasca (in quechua, antica lingua locale). E qualcuno ha risposto no, azzardando un’ipotesi intrigante e fantasiosa: gli autori di quei “disegni” potrebbero essere stati evoluti extra-terrestri, sbarcati in Perù con un’astronave in epoca imprecisata, quando i terrestri conoscevano a malapena il fuoco. Gli archeologi chiamano quei disegni “geoglifi”.
Chi percorre la Carretera Panamericana, l’interminabile strada che congiunge il Nord America alla Patagonia, ne può intravedere alcuni da una torre di osservazione costruita ad hoc in un punto strategico. Ma una buona visione d’insieme si può avere solo a due condizioni: la prima è appunto sorvolare la zona a bassa quota, in aereo o in pallone; la seconda è andare di buon mattino, quando la luce è radente.
Più tardi, a luce piena, non si vede più niente. Se a tracciare i disegni furono davvero degli alieni, erano marziani molto mattinieri.
Con le ali di Xavier
Non sorridete. In effetti, dalle parti di Nazca, i “marziani” sono tanti. Un prototipo della specie è Xavier, il pilota che mi preleva a Ica, un piccolo aeroporto ottanta chilometri a nord di Nasca e poi mi scarrozza fra le nuvole su un Chessna a tre posti targato OBTO-43. Per capire che Xavier è un extra-terrestre, dotato di poteri sovrumani, basta guardarlo: prima di partire fa il pieno di “cachina”, una specie di vino novello molto in voga da queste parti; poi decolla guardando all’indietro; infine vola gesticolando con entrambe le mani, lasciando la cloche in libera uscita.
Con un simile modo di guidare, se Xavier non fosse un extra-terrestre l’aereo precipiterebbe nel giro di dieci minuti. Invece si limita a una rotta stile otto volante, tutta cabrate, picchiate e colpi di coda. E comunque resta su, alla faccia della legge di gravità, con cui evidentemente i marziani hanno un rapporto diverso dal nostro.
Va avanti così per una mezz’ora, mentre sotto di noi sfila il deserto peruviano; un’immensa distesa di ghiaia e sassi che scende dalle montagne e va a confondersi con la spiaggia del Pacifico. Ogni tanto la ghiaia si interrompe per far posto a colture di palme, di cotone, addirittura di asparagi.
Quando non è impegnato a guidare (cioè sempre), Xavier mi indica qualche località interessante. A destra c’è Morro Quemado, una spiaggia dove nella tarda primavera sbarcano le foche per partorire e dove, subito dopo, calano i condor per divorarne le placente. A sinistra ecco invece Huacachina, un lago fra le dune, che una leggenda dice nato per nascondere una ragazza. La quale, sorpresa nuda da un cacciatore mentre si lavava a una sorgente, pregò Dio di farla sparire. Detto e fatto: il suo specchio si trasformò in lago, il suo velo in una duna e lei in una sirena, che si tuffò in acqua e scomparve.
Il mistero di Nazca
Si sa. Quando gli uomini scoprono qualcosa di strano sul territorio, devono sempre trovare il perché del fenomeno. E se non lo trovano, inventano una leggenda: più o meno verosimile, più o meno poetica, più o meno popolata di protagonisti sovrumani. È successo per il lago del deserto, ma anche per i geoglifi di Nasca: solo che là, invece di Dio, sono stati tirati in ballo gli extra-terrestri. Questo penso, mentre il Chessna fora le nuvole, rade ma turbolente, con la sua rotta a otto volante. Poi, di colpo, una picchiata imprevista dà la giusta punizione (divina?) al mio scetticismo positivista.
Quando l’aereo, chissà come, torna a stabilizzarsi, ripasso gli appunti dove ho annotato i nomi di tutti i personaggi che si sono occupati del “mistero di Nasca”.
Il primo fu Luis de Monzon, un magistrato dei tempi dei conquistadores, che attribuì la paternità dei geoglifi ai Viracochas, leggendaria etnia “venuta da un altro Paese”. Poi arrivò Julio Telio, un archeologo peruviano degli Anni Venti, seguito nei Quaranta da Paul Kosok, altro archeologo, stavolta nord-americano. Infine, per tutta la seconda metà del Novecento, i geoglifi furono vivisezionati da Maria Reiche, matematica e astronoma tedesca.
Nonostante tanti studi, il “mistero di Nazca” resta, almeno in parte, irrisolto. Ma oggi ai Viracochas non crede più nessuno e ai marziani solo pochi ufologi incalliti.
Infatti sappiamo chi furono i veri autori dei geoglifi. Ad accertarlo fu soprattutto Kosok, che per primo datò e classificò i “disegni”, attribuendone la maggior parte a un popolo (convenzionalmente chiamato “i Nasca”) che abitò la costa del Perù molto prima degli Incas, tra il 500 a.C. e il 550 della nostra era. Tuttora irrisolti sono però due interrogativi: a cosa servivano i geoglifi e come fecero i preistorici Nasca a immaginarli visti dall’alto.
Geoglifi di ogni misura
Giro il secondo interrogativo al pilota: “Xavier, tu e il tuo aereo c’eravate già duemila anni fa?”. Lui non raccoglie, fa una brusca virata a sinistra e si sbraccia indicando qualcosa sotto di noi: “Mira…” ordina con un tono che non ammette repliche. Guardo fuori e sulle prime non vedo niente. Poi l’aereo si abbassa, l’occhio si adatta e giù, nella ghiaia, si delinea il profilo di un’enorme scimmia. Quanto misuri quel disegno è difficile dirlo dall’aereo, perché l’unico termine di riferimento è il nastro d’asfalto della Carretera Panamericana, che però è troppo lontano. Xavier mi dirà poi che la scimmia misura 93 metri per 58.
Quel primate taglia XL è solo la prima tappa di una sorta di lungo zoo virtuale.
Sotto di noi sfilano un cetaceo di 31 metri, un ragno di 48, una lucertola di 180, infine un condor e un colibrì di cui Xavier non conosce la lunghezza. Ci sono anche figure umane, una delle quali – cara agli ufologi e chiamata “l’Astronauta” – indossa uno strano copricapo a scafandro. Ma soprattutto sfilano grandi mani e figure geometriche: trapezi, rettangoli, spirali, oltre a linee rigorosamente rette che partono dalla piana costiera e raggiungono le prime falde dei monti. Il tutto è sparso su un’area di cinquecentoventi chilometri quadrati; parola di Xavier.
Come sono nati i “disegni”
La tecnica usata per realizzare i disegni è ovunque la stessa. Il suolo del deserto peruviano è fatto di due strati molto diversi tra loro: il più superficiale, formato da pietre e ghiaia vulcanica e profondo pochi centimetri, è più scuro; il secondo, di natura alluvionale, è più chiaro. Quindi agli antichi Nasca bastò grattare la “crosta” del deserto per lasciarvi una traccia praticamente perenne: nella zona di Nasca le piogge sono rarissime, quindi anche l’erosione. Perciò i geoglifi sono giunti intatti fino a noi.
Ma torniamo ai due interrogativi di cui si diceva. Il primo: a cosa serviva quest’opera ciclopica? Kosok e la Reiche vedevano nei geoglifi un immenso “calendario astronomico”, che riproduceva in terra la mappa delle costellazioni.
Oggi un archeologo italiano, Giuseppe Orefici, apprezzato studioso delle civiltà precolombiane, sostiene un’altra tesi più convincente; i “disegni” erano sentieri lungo i quali i Nasca tenevano periodiche processioni rituali. Nessun archeologo, però, ha mai risposto al secondo interrogativo: come facevano i Nasca a vedere (o a immaginarsi di vedere) i disegni dal cielo?
Mongolfiere d’antan
L’unico ad aver tentato di dare una risposta è tale Bill Spohrer: non un archeologo, solo un americano avventuroso, che nel 1975 azzardò un’ardita teoria, secondo cui i Nasca potevano disporre di piccole mongolfiere. Per sostenere la sua tesi, Spohrer fabbricò un pallone ad aria calda, fatto di tessuti simili a certe tele trovate in tombe peruviane di duemila anni fa. Risultato: il pallone si alzò davvero da terra e volò per tre chilometri, ballonzolando all’altezza media di trecentocinquanta metri dal suolo. Poi piombò giù con un atterraggio brusco ma incruento.
Anche il rientro del nostro Chessna a Ica termina in modo brusco ma incruento. Bravo, Xavier: i tuoi antenati Nasca facevano proprio come te. Forse.
Tra la ghiaia riappare la capitale dei Nasca
La capitale dei Nasca si chiamava Cahuachi ed era formata da case modeste, templi e imponenti piramidi a gradoni. Si trovava nei pressi dell’odierna città di Nasca e si stendeva su un’area di ventiquattro chilometri quadrati.
Poi, intorno al 350 d.C., fu distrutta da un terremoto e coperta da colate di fango causate da un’alluvione. Le sue rovine sono state scoperte, scavate e studiate in anni recenti da una coppia di archeologi italiani, Giuseppe Orefici e Elvina Pieri.
Dopo il terremoto, la capitale storica fu abbandonata e il suo posto fu preso da un’altra città, l’attuale Estaqueria. La civiltà dei Nasca sparì del tutto verso il 550 d.C., quando dalle Ande scese un altro popolo, i Wari.
Informazioni utili
La compagnia più importante che organizza voli a bassa quota sui geoglifi di Nasca è l’Aerocondor, che ha sedi a:
Lima, Calle Juan de Arona 781, San Isidro, telefono 0051 1 6146000, www.aerocondor.com.pe
Ica, Avenida Angostura 400, telefono 0051 56 256230
Nasca,
Carretera Panamericana Sur, chilometro 447, telefono 0051 56 522402.
Prezzo orientativo per un volo da Ica: 130 dollari a persona.
Per saperne di più: www.crystalinks.com/nasca.html
www.geocities.com/proyectonasca/cahuachi.htm
www.visitingperu.net/ica_nazca.htm
www.natale.to/orefici-1.htm
Leggi anche: