Al Nord, “battaglia” fra olio e burro
E non è che i Nordisti italici disdegnassero l’olio per preconcetto o per motivi campanilistici o economici. No, è che in molti casi (ad esempio la “componente piemontese” della mia famiglia, con la zia che condiva la “sua” insalata con un che dall’aspetto molto acquoso) l’ “olio-olio” risultava eccessivamente pesante, stranamente (per stomaci che divoravano financo salami affondati nel grasso e la pesante “cassoela” longobarda) poco digeribile.
Beninteso, questa sorta di “oliofobia nordica” non escludeva l’esistenza dell’ulivo nell’Italia padana e subalpina (né di alcuni piatti a base di olio, si pensi alla “Bagna Caoda”, il cui condimento era commerciato con l’altro ingrediente, le acciughe, dagli “anciuàt” provenienti dalla vicina Liguria).
Non solo: proprio nel nord del Belpaese l’ulivo ha conseguito il lusinghiero record mondiale della coltivazione alla più alta latitudine. Un tempo detenuto (o quantomeno vantato) da Arco (nel Trentino, pochi chilometri a nord del lago di Garda) il primato si è trasferito nel Friuli Venezia Giulia.
Elegia dell’olio in etichetta
Già presente ai tempi dei Romani (Friuli, da Forum Iulii, di Giulio Cesare), abbandonata nei secoli bui, rilanciata dall’imperatrice Maria Teresa (mediante un contributo di due fiorini per ogni pianta interrata) e poi nuovamente dimenticata, la coltivazione dell’ulivo è stata recentemente ripresa nelle terre del Collio dal conte Formentini (una cui ava portò in dote il Tokaji a un nobile sposo ungherese).
Ulivo pertanto non totalmente sconosciuto nel nord Italia, ma dalla coltivazione circoscritta a piccole zone (lago di Garda, il citato Appennino) per una produzione di olio che si potrebbe sportivamente definire dilettantistica, familiare, raramente “industriale” (e comunque di modeste dimensioni). Considerati poi tutti i costi della manodopera e la scarsa redditività del frutto, ne deriva che produrre olio a livello “casareccio” è sinonimo di un lusso che molti non si possono permettere (tanto per fare due conti, un litro di olio imbottigliato – con una resa media di olive del 15% da una pianta adulta e da circa quindici chili di frutto – al piccolo produttore “famigliare”, costa non meno di 20 euro).
Ma la passione (e la certezza di degustare una cosa buona) è tanta e non inferiore al timore che quanto venduto al supermarket a prezzi di molto inferiori possa essere prodotto più dalla chimica che dalla Natura. Una passione non disgiunta da poetico entusiasmo, a giudicare da quanto scrive un amico medico – possidente di un fazzoletto di terra avita sul Garda – sull’etichetta dell’ “olio di famiglia”: “Praticamente miracoloso, splendido per condire, aromatizzare, insaporire, cucinare, rosolare, soffriggere, ottimo da assaporare, degustare, centellinare. Gli si riconoscono virtù tonificanti, terapeutiche, medicamentose, lubrificanti, officinali e cosmetiche.
Si dice che seduca con doti di magia e sortilegio; susciti incanto, estasi, malìa e meraviglia dei sensi. Fidando nelle sue qualità prodigiose, in esso si ripongono l’augurio e la bieca speranza che possa essere anche stimolante afrodisiaco”.
Un’altra “battaglia”: fra Italia e Spagna
E la mia (benefica) “aficiòn” all’olio? Beh, nacque col tempo, legata alle mie vicende professionali. Ritrovatomi a viaggiare sempre più sovente nella mia “querida” Spagna, dove l’Aceite (olio, da “aceituna”- oliva – è da sempre vincente sulla mantequilla-burro) mentre in Italia il primato è divenuto schiacciante solo in date più recenti, dell’olio divenni non solo estimatore ma pure utente.
E arrivai pure (ebbene lo ammetto, sono un traditore, un transfuga, un rinnegato, ma ho sempre tenuto per i deboli, gli oppressi dai potenti) a “tenere” per i produttori d’olio spagnoli che combattevano una sorta di “Guerra di Indipendenza” contro gli italiani.
Accadeva infatti negli anni Sessanta che i nostrani imprenditori, arricchiti dal boom noto anche come “miracolo economico”, invadessero la Spagna a comprare (per due soldi) oleifici e uliveti, da cui una produzione di olio venduto come “made in Italy” sui mercati del Belpaese. Ma da qualche lustro le fortune di Spagna e Italia si sono invertite ed ecco oggidì gli iberici – dopo aver ricomprato quanto un tempo dovettero svendere – vantare una “industria oleicola” che produce e vende sui mercati mondiali, (producto de España) l’olio un tempo etichettato “made in Italy”. I tempi cambiano; “panta rei”, tutto scorre.