Uno degli accessi alla Napoli sotterranea è in vico Sant’Anna di Palazzo, nei Quartieri Spagnoli, cuore del cuore della città. Qui i fratelli Salvatore e Michele Quaranta animano l’associazione Laes che da una ventina d’anni ha iniziato il recupero di quanto ancora esiste sotto il livello della strada.
Entriamo in un classico “basso” napoletano, un’abitazione al pian terreno e nella stanza interna, imprevista, c’è una scala in cemento che in rapide volute si avvita nel buio. “Questo era l’accesso ad un rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale” spiega Salvatore Quaranta, mentre mano a mano che si scende l’aria diventa quella fresca e umida di una grotta. “L’accesso al rifugio nasce in quello che originariamente era il vano di un pozzo. Durante i bombardamenti anglo-americani, a cavallo dell’autunno del 1943, queste scale hanno rappresentato una via di fuga in cerca di sicurezza per migliaia di napoletani che abitavano in quest’area”.
Giù, nel sottosuolo
Scendiamo per circa duecento gradini e proprio alla base delle scale troviamo una cappella dedicata a Sant’Anna, la cui chiesa in superficie è a pochi metri dal basso dal quale siamo entrati. Sembra quasi che, al di là della devozione, chi ha trovato scampo dalle bombe quaggiù, abbia voluto ricreare una sorta di geografia familiare ritrovando sottoterra qualcosa di analogo a quanto c’era in superficie. “L’origine di tutta la storia della Napoli sotterranea è da collegarsi alla particolare geologia del suolo” spiega Salvatore, appena le scale ci immettono in un antro con decine di sedie, sistemate apposta per riprendersi dalla fatica della discesa e per ascoltare la guida. “Siamo a quaranta metri al di sotto del piano stradale e a una decina di metri più in alto del livello del mare” continua Quaranta “Come dicevo, è la natura tufacea del sottosuolo che ha portato fin dalle origini gli abitanti di Napoli a scavare cunicoli e antri sotterranei; in primo luogo per prelevare il tufo che è un ottimo materiale da costruzioni, facile da lavorare e in grado di mantenere le abitazioni fresche d’estate e calde d’inverno”.
Partenope “bucata”
Furono i Greci, a partire dal 470 a.C., a dare inizio ai primi scavi per l’approvvigionamento di materiale edilizio e i buchi che restavano nel sottosuolo furono subito riciclati in cisterne per la raccolta delle acque piovane. Non a caso tutta la Napoli sotterranea è stata realizzata a una quota superiore al livello del mare, proprio per evitare che le infiltrazioni di acqua salata inquinassero quella raccolta per usi domestici. Queste cisterne sotterranee furono ben presto collegate tra loro mediante strettissimi cunicoli che diedero vita a una vera e propria rete idrica. Intanto, l’originario insediamento di Partenope, nato sulla collina di Pizzofalcone sui cui fianchi sorge vico Sant’Anna di Palazzo, fu affiancato a est da quello di Neapolis, appunto la Città Nuova, che sorgeva nell’attuale area di Spaccanapoli. Naturalmente, l’opera di scavo e di creazione delle condotte continuò anche sotto il nuovo insediamento e con l’accrescersi della popolazione sorse l’esigenza di alimentare la rete idrica con acqua sorgiva, dando il via ad un primo vero e proprio acquedotto che captava l’acqua da alcune bolle, nell’attuale area di Volla e riforniva Neapolis-Partenope.
Acquedotti nascosti sino a Miseno
Camminando lungo l’antico acquedotto, evidenti appaiono le trasformazioni avvenute quando le originarie condotte idriche furono trasformate in rifugio. Le cisterne mostrano ancora i segni del livello raggiunto dall’acqua e i camminamenti che consentivano ai manutentori di muoversi al di sopra del pelo dell’acqua. Per ospitare più rifugiati, questi spazi sono stati allargati in antri e corridoi ben più ampi di quelli originari. “Con l’avvento dei romani e con l’aumento della popolazione, l’acquedotto chiamato della “Bolla” non era più sufficiente” spiega Michele Quaranta “Così fu creato l’acquedotto Claudio, dal nome dell’imperatore che lo volle far realizzare, che captava l’acqua da Serino nell’avellinese e la trasportava fino Napoli. Parte di quest’acqua alimentava la città, unendosi a quella originaria della “Bolla”, ma altra, tramite un ulteriore acquedotto, finiva a Capo Miseno dove alimentava il quartier generale della flotta romana, la Classis Pretoria Misenensis, che allora dominava l’unico mare conosciuto, il Mediterraneo.”
Dopo la dominazione romana, Napoli ebbe un periodo di crisi, con buona parte della popolazione che per sfuggire alle razzie si rifugiò nell’entroterra. Solo nel 1266, con l’avvento degli Angioini, la città tornò a nuovo splendore e l’espansione urbanistica comportò una ripresa degli scavi sotterranei per l’approvvigionamento di tufo e per l’ampliamento della rete idrica. Il sottosuolo tufaceo e il suo sfruttamento, hanno fatto si che Napoli fin dalle origini abbia avuto sempre una gran disponibilità di acqua per usi domestici. Ogni palazzo storico napoletano, infatti, ha almeno due pozzi, uno comune in cortile e uno all’interno delle mura, in modo che da ogni singola abitazione, a qualsiasi piano ci si trovi, è possibile calare il secchio e rifornirsi. Nel corso della visita è possibile camminare negli strettissimi budelli che collegavano le varie cisterne. A stento c’è la possibilità di mettere la pianta dei piedi per terra una alla volta e davvero, nei tratti più lunghi, si è presi da una sensazione di claustrofobia. Per chi vuole evitare queste sensazioni, il percorso turistico prevede passaggi alternativi che evitano i tratti meno accoglienti.
Pozzari o monacelli, gestori d’acqua
Per secoli i padroni indiscussi di questi spazi sono stati i “pozzari”, ossia gli addetti alla manutenzione dei pozzi che appartenevano a quattro famiglie che si erano spartite gli altrettanti quartieri della città. Il loro compito era prevalentemente quello di pulire periodicamente il fondo dei pozzi e per fare questo svuotavano le cisterne, lasciando che l’acqua filtrasse a mare attraverso lesioni naturali del tufo, appositamente tappate.
“Per questo tipo di servizi i pozzari erano pagati dai vari utenti che periodicamente ricevevano una sorta di bolletta” precisa Salvatore Quaranta. “Il pozzaro agitava il fondo del pozzo in modo che l’acqua s’intorbidisse e a chi tirava su il secchio appariva chiaro che era giunto il momento di pagare. Questi signori avevano libero accesso alle case, mediante delle scale scavate nel vano dei pozzi che permettevano di risalire e compiere le loro pulizie. Ciò ha dato origine alla legenda napoletana dei ‘monacelli’, ossia piccoli monaci, spiriti burloni cui si attribuiva la capacità di apparire e scomparire dalle case, portando a seconda delle simpatie doni o confusione. L’immagine del piccolo monaco era data proprio dai pozzari, che per muoversi in questi cunicoli dovevano essere dal fisico minuto. Per giunta, la loro tenuta, per proteggersi dall’umido dei sotterranei, era dotata di un cappuccio e ricordava da vicino il saio di un monaco”.
La città sostenuta dal tufo
Tra il 1588 e il 1615, degli editti emanati per impedire una crescita eccessiva della città finirono, paradossalmente, per ingigantire ulteriormente la Napoli sotterranea. Le norme avevano proibito l’ingresso oltre la cinta muraria di materiale da costruzioni; fatta la legge, i napoletani trovarono subito l’inganno e dal sottosuolo continuarono ad estrarre quanto serviva loro per edificare. Nel corso della visita appare evidente come le cisterne, le condotte e i cunicoli siano stati realizzati con sapienza ingegneristica, proprio per impedire che i continui scavi provocassero cedimenti del terreno e crolli. La Napoli sotterranea è una varietà di volte a campana, a trapezio, a bottiglia e piane, a seconda di quale soluzione contribuiva meglio alla stabilità. Nel 1629 l’acquedotto romano fu ulteriormente potenziato per far fronte alle aumentate necessità e per altri due secoli questa rete sotterranea fu la fonte d’acqua domestica della città. Poi, nel 1885, dopo un’epidemia di colera causata proprio dall’infiltrazione di liquami di un pozzo nero nella rete idrica, fu costruito il nuovo acquedotto e della Napoli sotterranea non se ne parlò più fino alla seconda guerra mondiale.
Napoli sotterranea, protezione dalle bombe
Fu l’Unpa, l’Unione Nazionale Protezione Antiaerea, l’ente che all’epoca si occupava della costruzione e gestione dei rifugi, che riscoprì la Napoli sotterranea per realizzare 436 ricoveri, alcuni dei quali muniti di più scale di accesso. Il percorso aperto al pubblico riporta oggi nella drammatica quotidianità di quei giorni di fine estate del 1943. Sulle pareti, decine di graffiti lasciati da chi si rifugiava in questi antri, raccontano le emozioni, i pensieri, la vita minimale che si svolgeva indipendentemente dalle bombe. Quasi per caso ci si imbatte in un “Anna e Renzo sposi, 20 settembre 1943” posto proprio sopra una piccola nicchia che nella sua precaria intimità ospitò la neonata famiglia. Poco distante un’analoga nicchia è invece stata conquistata dalla prepotenza di chi scrisse “Riservato Sig. Campagna, 16 settembre 1943”.
“Alcuni di questi graffiti mostrano una mano esperta” commenta Michele Quaranta. “Questo rifugio ha ospitato molte persone che lavoravano lungo via Chiaia che all’epoca era la strada dei sarti e delle modiste e verosimilmente, alcuni di questi disegni sono proprio opera di qualcuno che aveva dimestichezza con i segni grafici”. E al di là della qualità dei disegni, l’eco del costume dell’epoca si ritrova in un ritratto del giovanissimo Amedeo Nazzari, protagonista allora del film “Luciano Serra Pilota” o in alcune immagini femminili che ricordano la “Signorina Grandi Firme” della pubblicità.
Allo stesso modo, l’eco della guerra è evidente in una riproduzione dell’aereo militare italiano S79 detto il “gobbo maledetto” o di un carro armato, nell’imperativo “Vincere” scritto con probabile ironia o nelle caricature di Hitler, Mussolini e dell’imperatore giapponese Hirohito.
Lungo i tunnel corrono a filari paralleli degli isolanti di ceramica bianca del sistema d’illuminazione del rifugio. A fianco a quelli grandi dell’impianto principale, si trovano quelli più piccoli dell’impianto di emergenza che, quando le bombe causavano un’interruzione d’energia, con le lampade a basso voltaggio garantivano un minimo di visibilità all’interno del rifugio.
Gallerie sotterranee, per ricordare
Con la fine della guerra buona parte di questi cunicoli è stata sepolta per sempre. Le macerie fatte dai bombardamenti non furono portate in discarica, ma semplicemente ammucchiate nel sottosuolo, e così, mentre la città rinasceva con l’impiego di materiale edilizio più moderno, l’antica Napoli sotterranea scompariva. Grazie al lavoro di alcuni appassionati di archeologia e speleologia, come appunto quelli dell’associazione Laes, il sottosuolo napoletano è oggetto di una riscoperta che offre oggi ai turista la possibilità di diversi percorsi analoghi a questo di vico Sant’Anna. Alla fine del nostro viaggio ci ritroviamo alla base della scala che ci ha condotti qui giù. I fratelli Quaranta ci offrono un’ultima emozione: spengono la luce e restiamo per un po’ nel buio e nel silenzio più assoluto. Non c’è il gocciolio dell’acqua tipico delle grotte naturali e basta un attimo per perdere il senso del tempo e della propria posizione nello spazio. Sembra quasi un’esperienza orientale e davvero, dopo qualche istante, ci dimentichiamo di essere in un sotterraneo napoletano. Poi i Quaranta riaccendono la luce e ritorniamo in superficie. Fuori, i vicoli dei quartieri hanno i rumori attutiti della sera inoltrata e la poco distante piazza del Plebiscito risplende nella sua corona di lampade elettriche. L’aria è calda; immaginando i blocchi di tufo sotto l’intonaco dei palazzi, riproviamo la sensazione del bel fresco sentito nelle viscere di Napoli.
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