Tutto comincia con Carlo Emanuele II, che decide di edificare una nuova residenza “di piacere e di caccia” per la corte, scegliendo il sito di Altessano, già teatro delle cacce ducali dal 1580, a nord ovest della capitale.
Che cosa ha in mente il duca? Torino, al tempo, è una città tutta compresa intorno al “centro” attuale, pochi chilometri quadrati. Intorno, ci sono ville a palazzi che formano quella che viene chiamata la “corona di delizie”. Ma Carlo Emanuele vuole di più, vuole qualcosa di memorabile.
Attenzione, siamo nel 1659, quando iniziano i lavori su progetto di Amedeo di Castellamonte (termineranno nel 1675). Sono lavori in contemporanea con Versailles che, dal 1661 al 1682, da residenza di caccia si trasforma in sede reale e prototipo della magnificenza delle corti europee. Caserta, tanto per dire, è di un secolo più tardi (1752-80). Non siamo quindi di fronte a una copia, ma a un’idea originale, che Carlo Emanuele I elabora perché ha una visione “europea” del Ducato e vuole affrancarsi dal binomio Francia-Spagna. Altra differenza: il Re Sole vive a Versailles che diventa, di fatto, la capitale del Regno. Torino resta la sede del potere e della politica, mentre Venaria è la “delizia” autunnale.
Luogo di caccia e di delizie
Una sede stabile per la “pratica venatoria”, per celebrare attraverso la ritualità della caccia la “magnificenza del Duca”. E il suo architetto, il Castellamonte, riesce a tradurre quell’idea in un palazzo coerente? Il nostro pensa ad un “unicum”: Borgo (civile, produttivo) Reggia (potere, corte) Giardini-Boschi di caccia (natura), lungo un asse di due chilometri. E qui, già ci siamo. Poi dà alla piazza del Borgo un aspetto monumentale, riproducendo la forma del “Gran Collare dell’Annunziata”, vale a dire dell’Ordine Cavalleresco medievale che i Savoia si sono inventati per legare a sé i potenti. La Piazza dell’Annunziata, dedicata all’Annunciazione di Maria, con due statue poste sulle colonne al centro delle esedre che raffigurano l’Angelo Annunziante e la Vergine e la Chiesa della Natività di Maria Vergine, è in realtà centro geometrico e simbolico del borgo.
Geometrico, perché divide l’asse della Via Maestra (con le abitazioni dei dignitari di corte, delle guardie del corpo ducali-reali, degli ufficiali dei reggimenti) in due tratti; simbolico perché è scenario delle botteghe artigiane (quindi della vocazione produttiva) del borgo, in cui si sta avviando la nuova produzione della seta. È infatti il Ministro delle Finanze ducale a incentivare i privati a produrre, con sussidi ed esenzioni, a perseguire una politica economica, si direbbe oggi. E Venaria, nuovo “palazzo del potere” e “vetrina”, è anche il luogo più adatto ad avviare quella politica di stimolo alla produzione. Tanto che, nel 1670, si costruisce una vera e propria fabbrica per la seta, un filatoio con le diverse fasi del ciclo produttivo (trattura, torcitura, tintura e tessitura) nei pressi dell’attuale via Battisti.
L’invidia dei francesi
La “prima” Reggia (detta Reggia di Diana) comprende due corti e ha come nucleo centrale il “Salone di Diana”, mentre a sud ovest ci sono le scuderie, i canili, la citroniera, il “Parco alto dei cervi” e la cappella di San Rocco.
Su quella reggia, “troppo per un duca”, si abbatte nel 1693 l’ira del Maresciallo di Francia Nicolas Catinat, che ha invaso il Piemonte nell’ambito della guerra dell’Europa contro la politica espansionista di Luigi XIV. Ecco cosa racconta un testimone: “…in un istante, la corte del cervo e quella della scuderia grande furono piene di squadroni…entrati nelle stanze del Palazzo, gli uni rompevano gli specchi, gli altri le tavole, gli altri portavano via i letti e le tappezzerie, gli altri rompevano i quadri…”.
I “grissini”del re
Ma, prima di continuare, bisogna parlare del grissino. Anzi, del “ghersin”, per dirla in piemontese. Già, perché il piccolo Vittorio Amedeo di Savoia (1666-1732) stretto tra la madre Maria Giovanna (troppo distante) e il padre Carlo Emanuele (troppo esigente) somatizza con disturbi intestinali, che lo indeboliscono sempre di più.
A nove anni, sembra sul punto di morire e il medico di corte, come “estrema ratio”, pensa di far produrre per lui un pane più secco e più cotto (per eliminare i germi patogeni e facilitare la digestione) affidando il compito al “panatero” Antonio Brunero. Costui, semplicemente, aumenta la superficie della pasta da cuocere in forno, allungando e rimpicciolendo la “ghersa”, la pagnotta allungata in uso ai tempi. Facendo così un “ghersin”, un grissino. Che fa guarire il piccolo duca.
E si dice che in seguito il sovrano era solito recarsi a Venaria portando sul suo cavallo una “cesta” di grissini; e che ancora il suo fantasma vaghi per le stanze, conducendo con una mano il cavallo e brandendo con l’altra un grissino incandescente.
D’altronde, senza il duca Vittorio Amedeo, che sconfigge i francesi nel 1706 nell’Assedio di Torino e diventa Re nel 1713, la Storia avrebbe preso un’altra piega. E addio Venaria, insieme a tante altre cose.
Il genio di Juvarra e il suo “teatro di luce”
Tornando alla Reggia. Si fa di necessità virtù. Si ricomincia (1699) con il nuovo architetto di Corte, Michelangelo Garove, ticinese. Che riprogetta la reggia, con grandi padiglioni uniti da gallerie e tetti mansardati, perché è cambiato il gusto ma, soprattutto, è cambiato il committente. E questa volta, Vittorio Amedeo guarda, come tutti i sovrani europei della sua epoca, a Versailles.
Curioso: mentre gli architetti del Re Sole (Le Vau, d’Orbay) hanno costruito per Versailles palazzi all’italiana, il nostro progetta palazzi alla francese.
Una simmetria strabica. Garove, prima di morire nel 1713, fa in tempo a costruire la Galleria Grande, ma non a terminarla. La fortuna del re si chiama Juvarra, un genio del barocco. Per capire la sua idea, basta percorrere la Galleria Grande, che molti (erroneamente) chiamano Galleria di Diana. È qui che si apprezza la sua visione. Una galleria “normale” (quella garoviana) viene sopraelevata, dotata di finestre ovali e di archi in alto e aperta a sud verso i giardini a fiori. È il suo “teatro di luce”, una meraviglia esaltata dagli stucchi della volta (putti, panoplie, trofei di guerra) e dal bianconero del pavimento. Ottanta metri di capolavoro.
Parco immenso e scuderie reali. La Mandria
Ma è anche a Sant’Uberto (patrono della caccia) la cappella regia, che brilla la suainventiva, fatta di conoscenza della luce e di colori morbidi, che inducono una spiritualità forte ma delicata. “Copia” più ricca e articolata della Basilica di Superga, Sant’Uberto è un edificio a croce greca smussata e cappelle circolari sulle diagonali.
I Giardini, al tempo, perdono la fisionomia “all’italiana” voluta da Castellamonte, per divenire un grande parco “alla francese” di circa centoventicinque ettari, con “parterres” a ricamo, viali, specchi d’acqua, boschetti, pergolati e un grande labirinto. E la Grande Peschiera, undici milioni di litri d’acqua (che oggi, recuperata, prevede naumachie e il ritorno della “peota” reale).
C’è ancora tempo per un altro architetto,
Benedetto Alfieri che, dal 1751, realizza le maniche di collegamento dei corpi juvarriani, il maneggio, le scuderie.
E, come i suoi predecessori, interviene sulla Mandria, la tenuta di allevamento dei cavalli reali, con la costruzione del Castello. Sarà poi Vittorio Emanuele II, a metà Ottocento, a far ampliare il Borgo Castello e a far costruire il sistema di cascine (Rubbianetta, Bizzarria ecc.).
Dopo Napoleone, anni di oblio e di degrado
Napoleone arriva, saccheggia (anche gli archivi a Parigi) e lascia il vuoto.
Venaria inizia il suo lento declino, diventando caserma e terra di nessuno.
L’oblio, tanto che Gozzano può dire: “Come mi piace la Venaria! … una zitella di età immemorabile…”.
Fino agli anni Ottanta del Novecento, quando la Regione Piemonte acquista il Parco della Mandria (oggi il parco è una della maggiori aree protette europee in cui vivono liberamente numerose specie di animali selvatici e domestici e dove è custodito un notevole patrimonio storico-architettonico) e si fa strada l’ipotesi di un recupero della Reggia. Tuttavia, bisogna essere dei visionari per pensare di resuscitarla, riportare in vita un edificio immenso, e i suoi centoventicinque ettari di giardini e un parco smisurato.
Per fortuna, i visionari non mancano. Parte il cantiere, che si prefigura come il più grande recupero d’Europa: duecentoquarantamila metri cubi, centoquarantamila metri quadrati di stucchi e intonaci, mille metri quadrati di affreschi, più di duecento milioni di euro. Lavori che durano otto anni, un miracolo per l’Italia, ma forse anche per l’Europa.
Restauri mirati
Che cos’è oggi, la Venaria? Un “work in progress”, come è sempre stata, oppure un “loisir contemporaneo”, o un centro per recuperare saperi (Centro del Restauro, i “Mestieri Reali”) o una cosa ancora più interessante.
Carlo Emanuele buttò alle ortiche il borgo di Altessano, per costruirla. Il recupero di oggi è anche un esperimento per cambiare una cittadina cresciuta male – dormitorio, borgo degradato, Reggia a pezzi, tessuto sociale difficile – in qualcosa di nuovo che, sotto l’impulso di un catalizzatore culturale, rigeneri se stesso, converta il decadimento in nuovo rinascimento, una cosa che si avvicina all’alchimia sociale.
È ancora da visionari? Forse, ma la bellezza della Reggia ha già prodotto cambiamenti, nel borgo e nella gente. C’era un sociologo americano che diceva che dove c’è degrado architettonico, urbanistico, c’è anche degrado sociale. E viceversa.
Una grande “casa” per gli incontri culturali
Ecco dove vuole andare la “nuova” Venaria. Non parliamo di “mission”, parola da “replicante”, ma di progetto sì. Inaugurati i giardini a giugno, con le sculture “naturali” di Giuseppe Penone, a ottobre si è inaugurata la Reggia, con la mostra sui Savoia, i padroni di casa, una dinastia che dura mille anni, al pari dei Borboni e degli Asburgo.
Un’esposizione molto bella, che restituisce lo spessore di una dinastia che gli italiani conoscono poco, o male, specie per le ruggini risorgimentali (Regno delle Due Sicilie, la Presa di Roma) e per le vicende dell’ultima guerra. Qui si parla dei Duchi e dei Re fino a Carlo Alberto, con grande enfasi su Carlo Emanuele II e Vittorio Amedeo II. E il loro tempo. E lo splendore di una Corte all’altezza delle grandi Corti europee per magnificenza, rapporti, committenze.
Basta vedere i quadri (Bellotti, Reni, Jan Miel, Van Dyck, Cignaroli) il mobilio (Bonzanigo, Piffetti, Prinotto) l’argenteria, i vestiti. Ci sono due cose “più”: la ricostruzione di Isabelle de Borchgrave degli abiti di Corte a metà Settecento, fatta in carta, un capolavoro; e la ricostruzione di “Una giornata a Corte”, di Peter Greenaway, con i personaggi della Reggia, i cortigiani, le dame, le serve, i paggi, gli ufficiali, i cucinieri, tutti a raccontare, come un proseguimento animato dei quadri “veri”, la loro vita quotidiana alla Reggia. Spettacolare, un libro animato.
Venaria e la sua Reggia: una piacevole “immensità”
Prossimi appuntamenti: il 2008, con altri venti ettari di giardino e la cascina dei Medici del Vascello; il 2009, con la Citroniera (giardino d’inverno) la Scuderia Grande (polo espositivo) la Galleria del Paesaggio; nel 2011, con il completamento.
Nel frattempo Venaria continua a proporre. Nell’immediato tre appuntamenti interessanti: il 23 novembre un concerto dell’Accamedia Montis Regalis sulla “Musica di Corte”; il 30 un concerto degli Archi Torti sulla musica da loro scritta e utilizzata da Greenaway; il 6 dicembre appuntamento per la “Festa dello Zapato”, con i bambini. Lo “zapato”, la scarpa, era dove si mettevano i doni per i bambini, a San Nicola, secondo la tradizione di Corte piemontese. Un altro recupero.
Per inciso, la Reggia di Venaria Reale e la residenza de La Mandria sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità (1997). Cosa che ormai non fa più notizia, ma che aiuta a internazionalizzare.
Concedetevi una visita. Come dice Ettore Scola: “Non c’è altro luogo che contenga in modo così evidente il concetto di immensità”.
Informazioni utili
La Venaria Reale
, Venaria (Torino) telefono 800329329 – www.lavenaria.it
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